Bit & Byte

Della cultura digitale e di altro

Vivere connessi, ora Viviamo in un’epoca in cui la cronaca non si scrive più solo sulle prime pagine dei giornali, ma anche nelle notifiche push, negli aggiornamenti su X (ex Twitter), nelle storie che spariscono dopo 24 ore e nei commenti di utenti che, dall’altra parte del mondo, diventano improvvisamente protagonisti di un dibattito globale. La notizia oggi non è soltanto ciò che accade: è come viene percepita, manipolata, condivisa e moltiplicata. Benvenuti nell’attualità digitale, dove la realtà si misura in tempo reale, e il “qui e ora” passa per server, cavi in fibra ottica e qualche intelligenza artificiale che decide se il tuo post merita visibilità. Prendiamo un esempio banale: lo sciopero degli autotrasportatori. Un tempo lo avremmo visto in TV con l’inviato sotto la pioggia, microfono in mano, a raccontare dei tir fermi lungo l’autostrada. Oggi lo vedi in diretta su TikTok, filmato da uno degli stessi autisti, con tanto di musica trap in sottofondo e scritta lampeggiante: #bloccostradale. È lo stesso evento, ma il filtro digitale lo trasforma. E qui nasce il cortocircuito: ciò che prima era “notizia” adesso diventa “contenuto”, da impacchettare in modo accattivante, perché altrimenti l’algoritmo non ti premia. Il paradosso dell’attualità digitale è che tutto corre velocissimo, ma tutto invecchia subito. La protesta di ieri oggi è già dimenticata, soppiantata da un meme sull’ultimo influencer caduto dal palco. È il fenomeno che gli studiosi chiamano economia dell’attenzione: una gara senza sosta per catturare quei tre secondi scarsi di concentrazione che ogni utente concede mentre scrolla sullo smartphone. Una distrazione perpetua che alimenta i colossi del web e lascia noi utenti convinti di “essere informati”, quando in realtà stiamo solo saltando da un frammento all’altro. Ma non tutto è così superficiale. L’attualità digitale ha un enorme potenziale democratico: basti pensare a come i cittadini documentano guerre, disastri naturali, soprusi in tempo reale, con una potenza narrativa che spesso supera i media tradizionali. Certo, bisogna fare i conti con fake news, deep fake, propaganda digitale: se una volta si diceva “l’ha detto la televisione”, oggi tocca chiedersi “l’ha detto davvero quell’account, o è un bot russo con una foto profilo rubata?”. La verità, in questo contesto, diventa liquida. Non perché non esista, ma perché è continuamente sfidata, manipolata e rielaborata. E così il cittadino digitale si trova a fare il detective: controlla fonti, verifica link, compara versioni. In teoria. In pratica, spesso si limita a condividere il primo contenuto che conferma ciò che già pensa. Perché l’attualità digitale è anche echo-chamber: ci piace leggere ciò che rafforza le nostre convinzioni, non ciò che le mette in discussione. Dal punto di vista tecnologico, il 2025 sta consolidando due tendenze: l’uso massivo dell’intelligenza artificiale come filtro dell’informazione, e la centralità delle piattaforme di messaggistica (da WhatsApp a Telegram) come vere e proprie piazze pubbliche. Non è un caso che molte notizie importanti non vengano più lanciate nei telegiornali, ma circolino prima nei gruppi chiusi, spesso in forma non verificata. È un modello di comunicazione “orizzontale”, in cui tutti sono potenziali reporter, ma anche potenziali diffusori di bufale. La politica non resta indietro: leader e partiti ormai usano TikTok e Instagram più dei comizi tradizionali. Non parlano più ai cittadini, parlano agli algoritmi: cercano l’inquadratura giusta, la frase breve, la musica di tendenza. Il rischio? Che i problemi complessi vengano ridotti a slogan da 15 secondi. Ma d’altra parte, siamo noi a chiedere questo tipo di comunicazione rapida e facilmente digeribile: perché leggere un’analisi di 20 pagine quando un reel con sottotitoli colorati ti dà l’illusione di aver capito tutto in meno di un minuto? E qui arriva la parte ironica: più la società si complica, più noi cerchiamo scorciatoie semplificate. Il mondo è nel caos, ma noi preferiamo litigare nei commenti su chi ha copiato la coreografia di un balletto virale. La democrazia scricchiola, ma intanto il nostro problema principale è trovare il filtro giusto per sembrare abbronzati nelle videochiamate di lavoro. Eppure, nonostante tutto, l’attualità digitale ci obbliga a guardare in faccia il nostro tempo: ci mostra l’immediatezza, il rumore, la complessità. È una lente che amplifica sia il bello che il brutto, e ci costringe a fare i conti con una verità fondamentale: non siamo più spettatori passivi. Ogni condivisione, ogni like, ogni post è un piccolo atto politico, sociale, culturale. Forse la sfida del futuro sarà imparare a distinguere tra il “rumore” e la “notizia”, tra il contenuto che vuole solo catturare il nostro tempo e quello che invece ha davvero un valore. Non sarà facile, perché il web ama le scorciatoie e gli algoritmi non hanno morale. Ma, in fondo, il compito resta umano: saper leggere, interpretare e pensare criticamente. Insomma: l’attualità digitale è una giostra che non si ferma mai. Ci gira la testa, a volte ci diverte, a volte ci spaventa. Possiamo scegliere se restare spettatori confusi o diventare navigatori consapevoli. La tecnologia non aspetta nessuno: o impariamo a ballare al ritmo delle notifiche, oppure ci ritroveremo taggati in un mondo che non capiamo più.

Massimiliano Pesenti ©

L’Alchimista Digitale: il podcast che trasforma i bit in pensieri In un panorama affollato di podcast, dove ogni giorno sembra nascere un nuovo titolo che sgomita per attirare l’attenzione, l’ascoltatore si chiede inevitabilmente se valga la pena dedicare tempo a un ennesimo show. La risposta, in questo caso, è sorprendentemente sì. L’Alchimista Digitale non è il solito flusso di notizie lette con voce monocorde, né un elenco di nozioni tecniche da manuale universitario: è piuttosto un laboratorio narrativo in cui la cultura digitale incontra la filosofia, la cronaca si mescola alla riflessione e l’ironia compare sempre al momento giusto per non rendere pesante il viaggio. Chi decide di premere play su Spotify, Audible o qualunque altra piattaforma ospiti il podcast si troverà immerso in un percorso che unisce rigore e leggerezza. La tecnologia viene raccontata con cura, senza cadere nella trappola dei tecnicismi sterili ma senza neppure scivolare nella superficialità. Dietro ogni algoritmo emergono i pensieri, le ossessioni e le domande di chi lo ha progettato, e a volte anche di chi lo subisce. Gli episodi si presentano come piccole narrazioni radiofoniche, capaci di coinvolgere tanto chi lavora nel settore informatico quanto chi si affaccia timidamente al mondo digitale senza distinguere un server da un tostapane connesso al Wi-Fi. L’ascoltatore, però, non si limiterà a raccogliere informazioni. Si aspetterà di essere trascinato in una conversazione viva, simile a quelle chiacchiere notturne con un amico che conosce bene i meccanismi della rete ma non rinuncia a guardarla con occhio critico e un filo di ironia. Vorrà scoprire i retroscena del mondo digitale che non trovano spazio sui quotidiani, lasciarsi provocare da domande scomode – l’intelligenza artificiale è alleato o apprendista stregone? il metaverso rappresenta un’utopia o soltanto un centro commerciale in 3D travestito da sogno? – e sorridere davanti a quelle assurdità che la modernità iperconnessa regala con generosità. Ed è proprio qui che sta il cuore dell’esperienza: L’Alchimista Digitale non promette formule magiche per decifrare il futuro, ma offre strumenti per comprenderlo, criticarlo e persino riderci sopra. Non tratta l’ascoltatore come un semplice utente da intrattenere, ma come un compagno di viaggio con cui condividere intuizioni, dubbi e lampi di immaginazione. E forse è per questo che il podcast trova il suo spazio ideale non solo nelle sessioni di ascolto concentrate, ma anche nei momenti quotidiani più ordinari: in macchina, in palestra, ai fornelli, o in quei ritagli di tempo in cui si ha bisogno di un’idea nuova che spezzi la routine. In fondo, il segreto è semplice: l’alchimia non sta nei bit, ma nello sguardo con cui impariamo a trasformarli in pensieri.

Massimiliano Pesenti ©

Il Fediverso: un’altra idea di social Negli ultimi anni il termine Fediverso ha iniziato a circolare con sempre maggiore insistenza. Ma cos’è, esattamente? Dietro questo nome insolito si nasconde una rivoluzione silenziosa, un nuovo modo di intendere la comunicazione digitale, lontano dalle logiche centralizzate dei colossi del web. Il Fediverso è un insieme di piattaforme social e di comunicazione interconnesse tra loro. La sua forza risiede nella federazione: non un unico grande contenitore, ma una rete di server indipendenti, chiamati istanze, che dialogano attraverso protocolli comuni come ActivityPub. Questo significa che un utente registrato su una piattaforma può interagire con chiunque, anche se utilizza un servizio diverso. Un po’ come avviene con le e-mail: tu hai Gmail, io ho Yahoo, ma possiamo scriverci senza problemi. A differenza dei social tradizionali, dove il modello di business è basato sulla pubblicità e sulla raccolta dei dati, il Fediverso punta su libertà, diversità e controllo personale. Qui non sei il prodotto da monetizzare, ma una voce che può scegliere il contesto più adatto per esprimersi. Prendiamo Mastodon, la piattaforma più nota del Fediverso: un social che assomiglia a Twitter (oggi X), ma senza algoritmi invadenti. I post vengono mostrati in ordine cronologico, le community sono moderate dalle stesse persone che le creano e ogni istanza può avere regole specifiche. Risultato? Un ecosistema molto vario, dove la qualità delle conversazioni non dipende da un algoritmo che spinge ciò che “vende”, ma dal rapporto diretto tra chi scrive e chi legge. Accanto a Mastodon ci sono altri progetti: Pixelfed, simile a Instagram ma senza pubblicità; PeerTube, alternativa a YouTube; Friendica, per chi vuole un social a metà tra Facebook e i forum; e tanti altri. Tutti collegati, tutti comunicanti. Un contenuto pubblicato su una piattaforma può essere visto anche dagli utenti di un’altra, senza barriere. Questa struttura federata porta con sé una caratteristica preziosa: la resilienza. Se una singola istanza chiude, il resto della rete continua a vivere. Se una comunità non ti piace, puoi cambiare server senza perdere i contatti. È un modello che riflette i valori originari di Internet: decentralizzazione, libertà, collaborazione. Naturalmente, il Fediverso non è perfetto. Mancano i numeri giganteschi delle piattaforme commerciali, e per i nuovi arrivati può sembrare un po’ complicato capire dove registrarsi o quale istanza scegliere. Ma è proprio questa apparente complessità che lo rende ricco: offre spazi personalizzati, comunità tematiche, regole fatte dalle persone e non da algoritmi. Molti vedono nel Fediverso una sorta di “ritorno alle origini” del web, quando la rete era un luogo di scambio e non solo un grande supermercato di contenuti. Un ritorno che non è nostalgia, ma scelta consapevole: rifiutare il modello unico imposto dai giganti e provare a immaginare un futuro diverso. E in effetti, il Fediverso sta crescendo. Ogni volta che un social centralizzato compie una scelta discutibile – dal caos delle policy di X alla gestione invadente dei dati da parte di Meta – nuove persone varcano la soglia di questo ecosistema. E spesso scoprono che sì, un altro modo di stare online è possibile. In conclusione, il Fediverso non promette miracoli né follower a pioggia. Promette invece autenticità. Promette comunità costruite su misura delle persone, non delle pubblicità. Promette la libertà di scegliere dove stare, con chi stare e come comunicare. In un mondo digitale che sembra sempre più stretto, il Fediverso apre finestre. Forse è questo il suo più grande merito: ricordarci che Internet non deve per forza essere governato da pochi, ma può tornare ad essere di tutti.

Massimiliano Pesenti ©

Benvenuti al teatro senza biglietto C’è chi entra a teatro con il biglietto in mano, in fila davanti al botteghino, pronto a farsi avvolgere dal buio della sala e dal fascio di luce sul palco. E poi ci siamo noi, che a teatro ci entriamo senza volerlo. Ogni giorno. Senza sipario, senza posto numerato, senza applausi finali. Il teatro della vita non ha registi dichiarati, solo improvvisatori maldestri. L’assurdo, in questo spettacolo, non è un ospite inatteso: è il protagonista fisso. Lo troviamo al supermercato, davanti allo scaffale della pasta, quando due signore litigano se sia meglio la penna rigata o la liscia, con lo stesso fervore con cui i filosofi greci discutevano di metafisica. Oppure sull’autobus, quando un signore racconta a voce alta le proprie vicende mediche a passeggeri sconosciuti, trasformando il viaggio in una tragedia clinica. E noi, spettatori e attori al tempo stesso, restiamo intrappolati in questa rappresentazione permanente. Il filosofo Erving Goffman, con il suo “La vita quotidiana come rappresentazione”, ci aveva già avvertiti: “ogni gesto, ogni parola, è parte di un copione sociale. Il problema è che spesso quel copione fa acqua da tutte le parti.” Pensiamoci: quante volte ci siamo trovati a sorridere in riunioni noiose, recitando un entusiasmo inesistente, come comparse in una commedia scadente? Quante volte abbiamo applaudito frasi banali solo perché pronunciate dal capo di turno, come se fossero battute di Shakespeare? La vita è un palcoscenico dove si applaude più per convenzione che per convinzione. Eppure, nonostante l’assurdità, in questo spettacolo ci troviamo a nostro agio. Perché nell’improvvisazione, a volte, c’è verità. L’uomo che inciampa sul marciapiede e si rialza con finta disinvoltura, la signora che parla con il cane come fosse un Nobel per la letteratura, il ragazzo che scrive poesie sui tovaglioli del bar… tutto questo ci ricorda che non c’è differenza netta tra palco e platea. Pirandello ci aveva visto lungo: “Così è, se vi pare”. Ogni individuo indossa una maschera diversa, a seconda della scena che deve affrontare. Il problema non è la maschera, ma dimenticare che dietro ce n’è sempre un’altra. E che, forse, sotto tutte le maschere non resta un volto, ma un altro sipario. Il bello dell’assurdo è che non ha bisogno di effetti speciali. Un vicino di casa che canta alle tre di notte convinto di essere Pavarotti, un impiegato che discute animatamente con la macchinetta del caffè, un politico che promette serietà con la stessa convinzione con cui un illusionista giura di non avere trucchi nelle maniche. E noi ridiamo, scuotiamo la testa, ma in fondo sappiamo che facciamo parte dello stesso gioco. Il teatro della vita è gratuito, ma non per questo meno impegnativo. Richiede presenza, adattamento, un minimo di spirito critico e, soprattutto, la capacità di non prendersi troppo sul serio. Perché se non riusciamo a ridere dell’assurdo, rischiamo di esserne schiacciati. Allora, forse, la vera filosofia non è quella che cerca verità assolute nei libri polverosi, ma quella che si esercita nel quotidiano: nell’arte di osservare, di sorridere, di capire che anche un litigio sul parcheggio può avere la dignità di una tragedia greca. È un modo di “divulgare” filosofia senza renderla spicciola: riportarla alla vita, dove è nata, tra mercati, piazze e osterie. E se proprio dobbiamo accettare di essere parte di questa commedia infinita, tanto vale imparare a godercela. Non c’è prova generale, non c’è serata d’esordio. Si va in scena tutti i giorni, spesso impreparati, e il pubblico — che poi siamo noi stessi — non sempre è clemente. Ma forse è proprio questo il segreto: accettare l’imperfezione come parte del copione. Ridere quando sbagliamo battuta, improvvisare quando dimentichiamo le parole, sorridere quando la scena sembra tragica. Perché, alla fine, in questo teatro senza biglietto, l’assurdo non è il nemico da combattere, ma l’alleato che ci ricorda che siamo vivi. Che non siamo macchine, ma esseri capaci di cadere e rialzarci, di ridere e piangere, di cambiare ruolo da un atto all’altro. Allora, benvenuti a teatro. Lo spettacolo è già iniziato, e non ci sarà replica. Tanto vale, almeno, divertirsi un po’.