Primo flusso, copia e incolla.
Oggi è sabato. Un sabato. Solitamente i miei sabato hanno la connotazione di un'aria distesa e tranquilla perchè, finalmente, non ho nulla a che vedere con il lavoro che faccio, con le scadenze che rincorro o con le ansie che mi tallonano menttre cerco di esorcizzarle con la mano destra, sollevando il dito medio come fosse una santa croce.
Solitamente i miei sabato sono spazio per il resto dei miei lavori, perchè non finisco mi di lavorare a dire il vero, e ora che l'ho scritto mi accorgo che c'è un velo di tristezza che sporca questa affermazione, è strano, è strano perchè parlerei comunque di lavori che più mi assomigliano ma mi accorgo altrettanto che sono impelagato in una situazione in cui devo mantenere il doppio lavoro, il doppio tempo e doppi risultati per non crollare su me stesso.
Facendo questa premessa, almeno potrei dire “dai, anche oggi si lavora a qualcosa che almeno ti piace, no?”
E invece penso alle case, agli appartamenti, agli affitti e ad un luogo che per cinque anni mi ha troppo abituato bene per la fortuna che mi ha reso ma ora è il momento di ricevere la mano tesa, la scadenza, la paura primordiale di non avere un tetto dove ripararmi mentre resto curvo con la schiena sopra un computer che devo ancora finire di pagare e che uso per fabbricare paesaggi sonori per me, per gli altri, per le commissioni che devo.
È ironico pensare altresí che mi stia mettendo a scrivere. Da quanto non lo faccio?
E pensare che cominciai proprio con un blog quasi sei anni fa, uno spazio wordpress dove riversare pensieri a flusso libero e citazioni incessanti a brani e album musicali, per poter dire che vivo di questo, ma non nel senso di guadagnarci con questo ma che il mio etere vive di questo, vive di musiche e testi che formano paesaggi sonori per mantenermi distratto, eterogeneo e per questo instabile nella forma finale. Nel paradosso, che bello.
E chi mi ha insegnato a scrivere a flusso libero, o quel che io credo lo sia?
Faccio prima a ripostare qui un articolo di blog che si trova ancora vivo altrove, ma adesso provo a riempire questo di spazio, e quindi su, proviamoci, interpelliamo di nuovo il me stesso di qualche anno fa che gira per Lisbona mentre interpella una figura che non sa ancora come definirle, solo che esiste e che dalle sue parole ha potuto estrapolare qualcosa.
È un inizio (?)
articolo originale qui: https://vacuomalandrino.wordpress.com/2017/03/22/discorrendo-il-fado-correndo-il-napo/
Mi sveglio da straniero in un luogo mai visto prima, tuttavia mando avanti la mia sana e incosciente curiosità. Sempre. Trasformo la sensazione di freddo spaesamento in caldo stato di ospitalità, trasformo l’estraneità in conoscenza del luogo e riconoscimento del diverso.
La mia nuova città dove vivere è Lisbona, e già questo è stato appurato, qualche articolo fa. Quel che ancora non ho potuto appurare è stato il bisogno di conoscere un nuovo spazio attraverso il punto di vista, anzi di udito. Punto di udito di una città nuova, di una casa o anche di una persona.
Facciamo che prendo il punto di udito di una bellezza visiva e il punto di vista di un prestigio sonoro. Chiamo a rapporto, anzi, disturbo e percorro il Napo, detto anche Lapis Niger, detto il Mago di Cuore Amore Errore Disintegrazione e le altre fantastiche avventure. Non voglio prenderlo in giro, cerco solo di sincronizzarmi con il suo umore esalato e salato, è un mare in tempesta dalle calme onde. Già questa descrizione il Napo la guarderebbe storta o magari sono io che vedo storto.
Facciamo che il Napo è gia alle mie orecchie e mi aiuta a scrivere fuoriuscendo dagli occhi. Beh, sì, lui una volta parlò di Ljubljana, mentre io passeggio per le strade della capitale portoghese. Anche qui trovo situazioni simili, forse solo con un paradigma diverso a suggerirmi le soluzioni.
E’ una domenica e mai come prima ho battezzato questo giorno come “il sabato della rivincita”, rivincita contro il primo sabato, quello vero, dove magari non è esattamente corretto il come sta andando una serata. Correggo, non è esattamente quel che hai sperato come evoluzione. Il pre-sabato, il venerdì, è invece quel sabato che accarezzi e te lo lasci volentieri passare addosso come un tram in velocità; alla fine vuoi solo scaricare la tensione di una settimana, benedetta essa e quel che offre, ma comunque con un suo peso lavorativo.
Saltiamo il sabato vero, il vero sabato e torniamo al terzo sabato, quello che precede l’innegabile lunedì.
La domenica ha due stadi di evoluzione, la prima è quella del risveglio e, se sei fortunato e volenteroso, anche quella delle attenuanti, le morbide melodie che hanno anche Domenica nel titolo. Fortuna che da Torino un’idea buona è venuta. Come ogni domenica, lo stadio 1 è dedicato alla mattina, alla colazione sempre abbondante e alle faccende di camera. Mi conforta l’onnipresente silenzio dell’appartamento dove vivo e dei miei coinquilini fantasmi, vivi o morti, presenti o assenti, araldi del non-rumore. Con una eccezione, manifestatasi oggi pomeriggio. Un allarme simile al “ring” di un campanello di casa, proveniente dalla stanza dello spagnolo. Da oggi pomeriggio che suona, implacabile, ad intervalli di un quarto d’ora di pausa, durata di dieci secondi, intermittenza di tre secondi, durata complessiva di dieci minuti circa per ciclo. Lo so che è maniacale ma è maniacale anche avere questo suono in testa anche quando non c’è.
Io non credo di appartenere alla loro araldica, comunque. Io quando posso canto, impiegando anche il diaframma, mi piace sentire le pareti della mia camera vibrare e questa onda sonora che rimbomba potente. Ma del canto ne parlerò un’altra volta. Anche del non-disturbo che apparentemente reco.
Non capisco una città passandoci solo il fine settimana.
Napo, hai ragione, nonostante impieghi il mio tempo per conoscere meglio l’identità di Lisbona quasi solo la domenica, giuro che intendo il senso e ci intingo anche il mio, spiegandomi come non sopporterò mai le necessità da turista ma osserverò sempre quelle di un viaggiatore o, proprio volendo toccare l’esagerato ma reale, l’abitante di ognidove. Quando giro, devo sempre ricordarmi di camminare per le strade come un ragazzo immerso nel dopo-lavoro di un giorno lavorativo. A piccole dosi, riesco a destreggiarmi anche così.
E passiamo allo stadio due, quello dell’uscita necessaria, l’individuazione di un progetto per il pomeriggio e la sera e la comunicazione di questo. Spesso e volentieri, e non nascondo l’immenso piacere della cosa, c’è chi risponde all’eco e si aggrega alla combriccola deambulante. Combriccola che si apre con due ragazzi, due colleghi, una coppia affiatata perchè diversa probabilmente di indole, che si presenta all’appuntamento con macchina fotografica in mano e sguardi verso la Torre di Belém. Qui il primo mio guaio: è tre domeniche che finisco a Belém e ancora posso dire di non averla vista. Mi auto-consolo con un “è normale”. Il secondo è non aver mai prestato tempo alle foto fino ad ora scattate da uno smartphone dalla sorprendentemente buona fotocamera. Tanto meno la Torre di Belém rientra tra le attrazioni viste, che per un italiano probabilmente si presenta solo una torre come altre in mezzo alle millemila torri e strutture del Bel Paese ma che comunque ho apprezzato dall’esterno e mi sono anche divertito ad osservarla in modellini per gli ipovedenti o i disabili. Il pensiero di quelle scale 1:50 mi ha fatto sorridere.
Passiamo il pomeriggio assieme, io e i due ragazzi, parliamo del più e del meno, commentiamo quel che vediamo e scorgiamo le luci del tramonto intrappolate da un albero in mezzo ad un piccolo parco, dipinto dai picnic di giovani portoghesi. Il cielo di Lisbona è qualcosa che mi mancava vedere da tempo, a livello di colori di alba e tramonto.
Arriviamo fino al Moastero do Jeronimos e qui faccio la mia seconda visita, più fugace e sommaria, più che altro per accompagnare gli altri due ragazzi mentre veniamo (in)seguiti a distanza da un guardiano che tenta di guardare noi e qualsiasi altro turista che entra, come in vena di importunare. Il messaggio di due colleghe, una è la mia supervisor, ci portano ad uscire da lì e ricongiungerci con la combriccola più allargata.
Lì menziono la possibilità della serata: il fado.
Salto temporale (nel mezzo c’è solo una mangiata in un fast food e i saluti ad una ragazza mia collega e mia interessante maestra e l’incontro con un altro avventore della combriccola). Cos’è il fado?
Il Fado è una delle voci del Portogallo se non la voce del Portogallo. E’ la mescolanza e l’identità di un canto, di una guitarra, di una viola do fado e di un cavaquinho, anche se una voce e una guitarra basta e avanzano spesso. Tra questi due, nel Fado, nasce un dialogo malinconico e struggente, una versione portoghese del neomelodico? Sì ma anche no.
Il Fado è il sacrosanto silenzio che detta legge ed è la luce quasi sempre smorzata che si impone nell’ambiente. Il Fado è il locale chiuso ai passanti durante l’esibizione per poi tornare aperto appena il brano finisce. Il Fado è non disturbare gli artisti con gli applausi ma mostrare riconoscenza sfregando solamente le mani, limitando il rumore in uno stormo di fruscii singolare ma incredibilmente piacevole da emulare.
Il Fado è nell’artista più o meno quotato che si fa pagare cinque euro all’entrata in un locale sofisticato ed è nella radiolina accesa di un piccolo ristorante che offre formaggi e paté di sardina e prepara dell’arrosto di pesce e del salmone buonissimo. Buono come il pane come era il cameriere e forse il proprietario, alla mano e al livello del cliente, abbassato a sufficienza da incrociare i tuoi occhi e mostrarti un sorriso attraverso essi, ogni qual volta si avvicinava per chiedere se era tutto ok, come era il pesce.
Il Fado è anche un bar dell’Alfama, un quartiere al quale mi sono particolarmente affezionato. Tejo Bar. Il bar che si anima solo dall’una di notte in poi, che propone Fado e musica in generale dalla spontaneità dei suoi avventori. Uno dei miei colleghi, l’uno dei due della coppia, suona il pianoforte presente in loco, fa un percorso di classica niente male e si ripropone nei suoi brani conosciuti, tutti strisciati dalle mani di chi lo ascolta. La voglia di cantare era forte ma…
Ci vuole un piano, qualcosa di contorto e articolato, che mi liberi dalle supposizioni…
Hai ragione, Napo. Non ha senso fare troppo il brillante per sfociare nel ladro di scena. Non è successo niente comunque, stai tranquillo. Solo voglia di cantare a caso e ricordarmi le note di una composizione di Roberto Cacciapaglia.
Le tue abilità da mago avranno già visto a sufficienza nei miei occhi votati al silenzio di quartiere dalle vie vecchie e strette e dal sincero rossore nascosto da una coppola, all’entrata di due ragazze che si misero vicine a noi, ad ascoltare il mio collega al pianoforte. Avranno già visto il giorno dopo e quello dopo ancora, quello di stasera, mentre scrivo queste righe e mi chiedo se debba lasciare riposare la carta elettronica un giorno oppure fare come sempre: scommettere per scherzo, lasciando tutto al primo getto.
So solo che l’Alfama mi appartiene, appartiene ai miei ricordi più di un Bairro Alto, che come quartiere è d’obbligo per battezzarsi con l’alcool la prima sera ma che la ridondanza ti porta a malsopportarla se non sai come prenderla.
Mi manca da vedere ancora la pink street, ora che ci penso. Un’altra storia.
Mi manca da raccontare una cosa che ora ricordo. Un pensiero che non mostra un appiglio al tema di stanotte ma che il Napo magari apprezzerebbe, probabilmente gettandomi in ambigue immedesimazioni non richieste ma richieste.
Una sera, aspettando l’annuncio della stazione della metro vicino casa, ero seduto in un vagone di fronte ad una ragazza forse più giovane di me di qualche anno, dal viso semplice e le lentiggini e la testa bassa. Aveva degli auricolari e un viso assente e indipendente. Più la metro percorreva le gallerie, più notai. Notai che piangeva, in silenzio, sommessamente, in piccole lacrime riversate in uno scoppio muto e contrito da quella che sembrava vergogna.
Ricordo solo che la osservavo senza empatia facciale, ma la mia ingenua sfacciatagine probabilmente l’avrebbe prima o poi interrogata, e invece è stata tirata di manica dal (buon?) senso dell’annuncio della mia stazione. E quella ragazza non la vidi mai più.
Napo, che significa?
sempre problemi sempre molestie sempre cavilli sempre giochi di cui pochi, direi, divertenti tu mi rallenti, umano, tu mi rallenti
Puoddarsi, Lapis. Puoddarsi. Puoddarsi che debba dar ragione al piromane in me ed in ognuno di noi. Avrei potuto anche divampare.
Come ora userò il fuoco di un fiammifero, ed accenderò la mia pipa
Ed è fumo.