[4] – Il Blocco del Puerto

AtleticoLaGloria

I racconti etnografici nella tradizione antropologica anglofona sui repertori e le pratiche di resistenza dei soggetti coloniali sono svariati. Un articolo dei primi anni novanta di Lila Abu-Lughod (1, 2) è considerato lo spartiacque degli studi sulle resistenze nell’antropologia sociale britannica. Le ribellioni contadine ed operaie degli anni sessanta e settanta contro regimi autoritari furono descritte in lavori etnografici come quelli di James Scott (1, 2, 3) in cui si evidenziavano dettagliate micro strategie quotidiane di opposizione e protesta contro processi di sviluppo e di cosiddetta “civilizzazione” su vasta scala. Approcci come quello della Abu-Lughod invece descrivono la resistenza nella sua relazione di interiorità con il potere, a partire dagli studi sulla sessualità di Michelle Foucault (1). L’antropologa di origini palestinesi racconta come l’umorismo e le prese in giro del macismo, le pratiche di ribellione ai matrimoni combinati o la declamazione di poemi per riscoprire empaticamente libertà apparentemente precluse costruiscano una vasta area di spazi di quotidiana ribellione nei quali soggetti dominati come le donne Beduine creano sfere di socialità in cui proteggono la loro capacità di critica del potere. Parte di quello che ho scritto fin qui rientra in questo tipo di descrizioni etnografiche dove la resistenza assume forme quotidiane che permettono di andare contro dinamiche di controllo, dominazione e violenza strutturali. Dalle riunioni a bere viche “curato”, a quelle delle fumerie, fino alle partite di calcio organizzate in zone pericolose del quartiere (nella foto di sopra) ho cercato di mostrare i “verbali segreti”, come li ha definiti James Scott della storia ufficiale, catturata tra le leggende narcotiche e le trame dello sviluppo logistico di Buenaventura. Ho però anche mostrato come vi fossero tutta un’altra vasta gamma di pratiche, che ho definito di frontiera, e che si riferiscono all’aministrazione della vita ed al “far vivere” quotidiano, come il collegamento illegale alla rete elettrica o gli escamotage per ottenere medicinali sussidiati che portano certi sentimenti e necessità all’interno di uno scontro o per altri versi all’alleanza con le autorità legittime o legittimate. In questi spazi di indefinizione, ho cercato di descrivere il resistere dentro un campo generato dall’incontro tra la locura e la mala vida dove si confondono sistematicamente i piani etici rendendo di fatto inutile stabilire se vi sia un giusto o uno sbagliato. Quello che mi parve riscontrare a Buenaventura fu una soluzione epistemologica radicata nella calle, cioè in una localizzazione del sapere-potere essenzialmente nomade e dipendente dalla necessità di risolvere problemi contingenti.

Quello che vorrei provare a fare ora è seguire un altro approccio e raccontare azioni collettive su più vasta scala. A questo proposito, il lavoro di David Graeber (1) propone un cammino inverso a quello della Abu-Lughod ed un ritorno a certe descrizioni delle proteste organizzate e della resistenza come impresa collettiva. Le sue descrizioni dei movimenti sociali riposizionano l’etnografo dentro l’organizzazione e la partecipazione di contro-eventi che nascono in risposta ad un’agenda internazionale degli organi mondiali di governo in cui vengono proposte politiche economiche centrate sulle logiche della “liberazione del Capitale” che ho definito nel post [1]. Osserva quindi “azioni dirette” che hanno precise finalità di sovvertire pensieri e pratiche dominanti dell’economia e del governo dei popoli. Un filo conduttore degli anni che ho trascorso in Colombia è stato la mia partecipazione, da osservatore ed invitato e, in alcune occasioni di minor importanza, da organizzatore, a fori politici, marce ed azioni più improvvise come appunto i blocchi delle strade. Vorrei rivedere questo materiale di esperienze cui mi fu data la possibilità di assistere per fornire un contesto delle politiche della ribellione di un paese come la Colombia con lo scopo di raccontare “il blocco del Puerto” dall’interno di certe forme di intendere la protesta. Lo faccio anche perchè parte del mio lavoro etnografico per come fu concertato localmente riguardò un tentativo di racconto di queste dinamiche. Preciso però che questo non mi pone in una posizione privilegiata e non mi dà alcuna autorevolezza particolare per dire “la mia” su processi molto più complessi e spesso estremamente delicati che riguardano difficoltose azioni collettive per la rimemorazione e\o la richiesta di giustizia. Cercherò allora di posizionare le mie partecipazioni ed il mo impegno per dare un’idea della sua natura comunque parziale. Per farlo non posso che partire da uno degli eventi che più hanno segnato il mio cammino in Colombia.

Nel luglio 2009 partecipai ad una carovana organizzata dal MOVICE (il Movimento Nazionale delle Vittime di Crimini di Stato) che da Bogotà arrivò a San Josè del Guaviare e di lì, dopo una marcia cittadina e una notte a dormire in un palazzetto dello sport, con tre chiatte, risalimmo il fiume Guaviare fino a Mapiripan per denunciare e ricordare una delle maggiori ed all’epoca ancora impuni stragi paramilitari (per maggiori dettagli si veda il libro di Guido Piccoli, in particolare il capitolo “La Legge della motosega”). L’importanza dell’evento nella mia personale relazione con la Colombia riguardò molti piani di comprensione del paese ma ebbe immediatamente un forte impatto emotivo che mi spinse a ragionare a lungo sulla natura delle azioni di rimemorazione. L’evento era centrato sulla capacità di un gruppo abbastanza esteso di persone (circa 500) di creare legami empatici tra loro attraverso un comune viaggio solidale per ricordare eventi drammatici. Grazie alle atmosfere che si produssero negli accampamenti, sui bus o sulle chiatte, si aprirono degli spazi di comprensione che permisero alle vittime della strage di ritornare per la prima volta sui luoghi delle violenze e testimoniarle una volta di più, questa volta però camminando e rimemorandole sul posto e non in aule di tribunale o in uffici di Bogotà. Le operazioni che permisero la creazione di questo spazio protetto non riguardarono solo le relazioni interne del gruppo ma anche le autorità nazionali che non vedevano di buon occhio queste produzioni civili. Inoltre occorse impostare dei percorsi di accettazione che riguardarono gli abitanti di Mapiripan, tra persone che rimasero lì dopo i fatti e chi vi si insediò successivamente alla strage. Per alcuni giorni tutta la cittadinanza, inclusi i militari di stanza nella locale base, si trovarono ad essere “invasi”, volenti o nolenti, da una carovana pacifica di clown ed artisti di strada, leader popolari e di tante altre persone comuni che avevano anche l’obiettivo di metterli di fronte ad un passato conteso che molti di loro preferivano rimuovere, anche nel senso descritto nel post precedente, cioè di un un divenire-altro cui la vita li obbligava. Nel caso di Mapiripan, dopo la nostra azione diretta, l’unica famiglia che si offrì volontaria per cucinare cibo e prestare alcuni servizi di logistica fu poi espulsa dal villaggio e dovette rifugiarsi a sua volta a Bogotà. Inoltre tutti gli organizzatori dell’evento ricevettero minacce di morte credibili che li obbligarono in alcuni casi a lasciare il paese per qualche tempo. Rimemorare in Colombia era quindi un’azione che presentava svariate complessità.

Dopo Mapiripan partecipai ad una lunga serie di incontri, marce concerti e fori politici a Bogotà, Medellin, Cali, Quibdò, Armenia, Barrancabermeja e Buenaventura ai quali erano presenti molte organizzazioni internazionali, nazionali, regionali e/o cittadine. Cercai di intendere ognuno di questi incontri a partire da quella comprensione cui mi aveva introdotto la carovana di Mapiripan. Vi scorsi così ogni volta una funzione primaria che era proprio quella di ricucire emotivamente una lunga serie di traumi che non avevano altri spazi di condivisione oltre quelli che venivano creati in quei contesti. Compresi in questo modo che resistenza significava innanzi tutto prendere coscienza di non essere colpevoli delle violenze che si erano subite o a cui si era assistito e che questo percorso non poteva che essere condiviso. A partire da questa consapevolezza si mettevano in moto dinamiche con cui si recuperavano quasi letteralmente le forze incontrando persone che raccontavano storie di oppressione e di privazione simili a quelle che si vivevano quotidianamente e mostrando logiche belliche più complessive che andavano oltre le storie di quartiere. Si generava così una protezione ed una comprensione di gruppo che permetteva poi di organizzare pensieri condivisi sulle ragioni della povertà e edlla diseguaglianza da cui si alimentavano azioni come quella di Mapiripan. I fori, gli incontri eccetera erano sempre forme di organizzazione partecipata di azioni dirette che aspiravano a puntare il dito sul “marciume” che bisognava riportare a galla. Nei difficoltosi percorsi di normalizzazione della violenza di un paese come la Colombia, come visto, la morte appariva troppo spesso un fatto ripetitivo che nasceva soprattuto per via di un “destino” e di “scelte sbagliate” personali. Questo modo di intendere la guerra civile riduceva ogni cammino di resistenza contro le diseguaglianza strutturali a pure e semplici velleità “comuniste” o “guerrigliere”. Quando non venivano criminalizzate di solito erano tacciate come la ragione dei problemi di sviluppo e di progresso del Paese. Ognuno di quegli incontri rovesciava queste visioni del mondo.

Durante gli ultimi due mesi del mio lavoro di campo nel 2011, l’instabilità del Barrio nell’epoca del “passaggio”, costrinse anche me ad allontanarmi da Buenaventura. La decisione fu dovuta ad un generale aumento della tensione percepita che iniziò a diventare personalmente insostenibile. Gli incontri della vita mi portarono però a partecipare all’organizzazione di una marcia di commemorazione per i 20 anni di un’altra strage paramilitare nella hacienda El Nilo, nel distretto del Cauca, insieme ad un gruppo di indigeni Nasa e Paece, Los Nietos de Manuel Quintin Lame. In questo caso le azioni di rimemorazione si ripetevano ogni anno e non vi era nulla di particolarmente delicato in quell’evento fatta eccezione per le dinamiche interne alle autorità indigene dei territori in questione. All’epoca, Los Nietos, tra i quali c’erano alcuni fondatori dissidenti del CRIC, erano in opposizione “cordiale” con i vertici delle autorità indigene del territorio, il CRIC appunto. La natura dei contrasti riguardava quasi unicamente le forme della protesta, non le ragioni che le motivavano. Los Nietos occupavano terre illegalmente poichè il Governo non le restituiva. Il CRIC era invece impegnato in più complesse tattiche politiche che spesso risultavano di difficile comprensione per la base. Giocando su questa contesa, all’interno degli eventi commemorativi organizzammo un’azione che chiamammo “Ocupa la Memoria” (occupa la memoria) sui social network che generò alcune ansie, soprattutto localmente. Le terre della Hacienda El Nilo erano ancora di propietà di una società di prestanomi che se ne era appropriata dopo la “vendita forzosa” avvenuta dopo l’uccisione dei 20 indigeni capi famiglia che vivevano lì. Il gioco di parole “ocupa la memoria” aveva generato preoccupazioni poichè si temeva che l’occupazione potesse essere una “via de hecho”, cioè reale, vista la storia de Los Nietos. Un’azione giudiziaria aveva infatti dato ragione agli indigeni ed intimato il governo a restituire le terre ma non era accaduto ancora nulla in quel senso. Ed era passato già molto tempo. La nostra intenzione, evidentemente provocatoria, giocava linguisticamente sulla necessità di ricordare, occupando memorie impegnate in tutt’altro. Tra le micro azioni che registrammo vi furono comizi improvvisi di qualche minuto sugli affollatissimi bus “Transmilenio” di Bogotà, fatti da due o più persone che raccontavano una fantomatica storia sull’occupazione della Hacienda el Nilo ad alta voce; un’occupazione che chiaramente non avvenne e non era in programma. Sta di fatto, che questo evento ci causò non pochi problemi e stigmatizzazioni di vario tipo, tra cui una diretta accusa di essere integranti delle FARC per cui dovemmo rispondere alle autorità locali indigene del municipio in cui vivevamo all’epoca, la cittadina di Caldono, sempre nel Cauca. Alcuni giorni prima della marcia, prevista il 16 dicembre del 2011, fui poi convocato personalmente dalla “Comandancia” del CRIC che mi ribadì la loro disapprovazione per il nostro evento “parallelo”, pur riconoscendo il fascino dell’azione mediatica che aveva sortito effetti a Bogotà che però dai villaggi noi non riuscivamo a cogliere pienamente. Terminarono dandoci il permesso di seguire la nostra rimemorazione insieme ad alcuni sopravvissuti alla strage nonchè alla pro-pro-pro nipote di Manuel Quintin Lame che da Cali aveva deciso di unirsi alla nostra camminata da Santander de Quilichao fino alla Hacienda el Nilo; un modo diverso per ricordare il trisavolo, così famoso tra le montagne del Cauca.

Non toccai più cime adrenaliche ed organizzative come quelle di quei giorni e di quell’anno. Nel 2013 e 2014, attraverso l’ICANH, mi trovai soprattutto a lavorare insieme alla Secreteria de Asuntos Etnicos del Municipio di Bogotà che allora era governata da Gustavo Petro, primo sindaco ex guerrigliero (M19) della capitale del Paese. Mi impelagai quindi in questioni burocratiche che per una ragione o per l’altra si conclusero sempre con il “fallimento” di ogni progetto che avevamo iniziato, nonostante l’approvazione dei beneficiari, una “progettualità convincente” e la disponibilità di fondi pubblici. In quei giorni mi resi conto di aver iniziato un personale cammino nella “mala suerte”, cioè in una configurazione cosmologica del male che toccava più o meno tutti quelli che si indaffaravano nelle politiche progressiste in Colombia e che di lì a poco avrebbe fatto decadere il sindaco della città a causa delle sue politiche sulla gestione dei rifiuti urbani. Senza dilungarmi troppo con ulteriori esempi, è da questa prospettiva che vorrei provare a mettere assieme un pensiero sull’azione collettiva in Colombia per proporre un’interpretazione del blocco del Puerto.

Per farlo, occorre ritornare prima di tutto ai temi del primo post del blog ed al post [1]. In sintesi, ho cercato di definire sistemi politici oltre la nozione di sovranità e di percorsi identitari. Per farlo ho mostrato una realtà quotidiana in divenire tra opposti mai propriamente tali come amico-nemico, esterno-interno o adentro-afuera che descrivono relazioni di inimicismo che si adattano alle condizioni del conflitto. Simmetricamente, ho raccontato anche l’esistenza di molti spazi per così dire di “liberazione”, definiti “interrregni”, capaci di sovvertire quelle forze che decentrano le soggettività del Barrio rispetto ad un altrove altrimenti più potente dei percorsi locali di soggettivazione. Rimane aperta la questione di come, partendo da qui, possano articolarsi azioni collettive su più ampia scala contro una violenza strutturale e non confinabile “alle scelte di vita dell’individuo”. In particolare, per raccontare il blocco del Puerto, ho bisogno di snodare alcune dinamiche, prime tra tutte quelle reazioni che producono le solidificazioni degli interregni dentro ordini non completi ma facilmente identificabili attraverso istituzioni ambigue come il “Capo” o la “banda”. Come visto queste nozioni riempiono l’immaginario chiudendo o direzionando le opzioni di resistenza disponibili. Tuttavia, accanto a queste solidificazioni, esistono anche un insieme di forze opposte che apparentemente ne limitano la crescita sostituendo, con una certa costanza, la leadership o modicandone i vincoli di appartenenza. Nel post precedente ho mostrato però anche come il cambiare da un epoca all’altra di fatto lasci gli abitanti dentro una non identità, un divenire-“un certo gruppo” che lascia immutate le condizioni che generano la violenza strutturale. Nella lunga storia delle ribellioni della Colombia è certamente possibile ritrovare una vasta gamma di pratiche e di repertori di azioni collettive che rispondono alla necessità di andare oltre la sostituzione di una banda con un’altra o di un capo con un altro.

Al proposito esiste una vasta letteratura sui movimenti sociali afrocolombiani che analizza e descrive le forme assunte da queste azioni collettive nella regione pacifica della Colombia. Una rassegna che dia spazio a tutto il materiale disponibile non rientra nello scopo di questo post (1, 2, 3, 4, 5, 6). Per ora mi basta inquadrare le questioni più generali citando un sociologo italiano, Alberto Melucci (1), che considera i movimenti sociali una critica fondamentale che muove dall’interno di sistemi complessi quali sono le società moderne. La densità informativa insieme alle scale raggiunte da alcune dinamiche di dominazione richiedono infatti l’organizzazione di proteste non più confinabili ai singoli territori e che coinvolgono una molteplicità di attori. Esistono tuttavia alcune importanti criticità che riguardano come queste macrovisioni del mondo e quindi della protesta riescano ad essere rappresentative di quella microfisica del potere che ho cercato di descrivere in queste pagine. Il blocco del Puerto infatti si determinò per ragioni locali, legate all’accesso all’acqua, e dipese da una congiuntura di eventi specifici che generò la rivolta. Tuttavia l’azione che ne derivò, il blocco delle strade, ebbe un impatto nazionale per via della vitale funzione logistica della città rispetto all’economia del Paese. La ricomposizione della protesta ed i dispositivi di controllo che si misero in moto presentano quindi delle specificità proprie non necessariamente riconducibili alle più generali lotte del movimento afro-colombiano come quelle legate al riconoscimento della proprietà collettiva delle terre dentro la Ley 70 o i diversi percorsi identitari e culturali che aspirano a riaffermare la “cultura afro” in una società razzializzata come quella colombiana. Vi sono poi dinamiche interne al movimento stesso che a Buenaventura appaiono collidere tra spinte autonomiste radicali che moltiplicano le identità immaginate, i nuovi nazionalismi e le spinte regionali, e forze universalizzanti che aspirano invece a risolvere le diseguaglianze materiali attraverso il riconoscimento di diritti universali e della “rule of law” ipotizzando che la lettera della legge di per sè sia sufficiente per generare cambiamenti anche nei quartieri. In quella che ho definito la guerra civile del Puerto sono evidenti tutti questi piani di analisi e processi tanto nelle politiche del controllo quanto in quelle della protesta. Quelllo che ora più mi interessa non è tentare una sintesi delle diverse questioni aperte ma cercare di comprendere come l’organizzarsi locale si leghi a queste questioni rimanendo comunque un processo distinguibile e peculiare.

Per tentare di fare un passo in più verso la comprensione di queste dinamiche trovo utile ancora una volta ritornare agli studi di Foucault, in particolare alla lezione conclusiva dei suoi seminari “Bisogna difendere la società” (2010:206-228). Vorrei cioè verificare come alcune pratiche di governo che organizzano la “funzione del razzismo” e come il dispositivo “guerra alla droghe” si intersechino a Buenaventura e come la protesta debba trovare sempre un modo per snodare dinamiche caotiche imposte da quelle intersezioni rischiando di perdere poi il focus e l’obiettivo delle lotte stesse. A partire da queste considerazioni, nel prossimo post cercherò di intendere il blocco del Puerto come un interregno che permise un superamento in senso comunitario di ognuna delle cesure del corpo sociale. Ciò fu possibile attraverso la creazione di un campo aperto fondato epistemologicamente sulla calle e sulla presa di coscienza di una comune condizione di privazione da cui si misero in moto forme di solidarietà altrimenti impensabili. Al di là della sua successiva sintesi politica dentro precise richieste ed offerte di compensazione, avvenne qualcosa di più importante che riguardò una riconquista nell'immaginario di convivialit. Da qui derivò la consapevolezza di un potenziale non reprimibile.