[bada-boom #00]

Ad un certo punto arriviamo a Goteborg, non ricordo se c'è la luce o buio, siamo svegli solo io e Elettra. Guidiamo in silenzio, vediamo le case venire verso di noi, affrontarci, e poi siamo dentro la città; seguiamo le indicazioni meccaniche di Google, arriviamo alla stazione. “Primogenito, preparati, siamo arrivati” diciamo a bassa voce a nostro figlio che apre gli occhi, si guarda attorno, guarda dall'altra parte del finestrino. All'interno dell'abitacolo cerca di capire dove è, dove deve andare, poi si riscuote, inizia a prendere le sue cose. Quando ci salutiamo davanti alla stazione siamo tutti addormentati, lo abbracciamo, gli diciamo di scriverci appena arrivato a Stoccolma, gli chiediamo se ha già fatto il biglietto, lo guardiamo e intanto ci stiriamo la schiena fa effetto, dico, fa effetto vedere tuo figlio che prende lo zaino e se ne va e non hai idea di quando lo rivedrai.

Risaliamo in auto, torniamo a guidare. Anche questa missione, penso, è compiuta. Per ore tutto attorno a noi si trasforma, le luci, il tempo. Non mettiamo musica, non vogliamo svegliare gli altri figli. Quando arriviamo ad Älmhult Elettra mi indica le cose, guarda tutto, dice che non è come quando l'ha lasciata. Ci tiene a farmi vedere i posti in cui aveva vissuto senza di me e io la seguo in questi percorsi con affetto. È come quando trovo una sua foto da ragazzina o un foglio con un suo disegno fatto da bambina, cerco di entrare in quel periodo della sua vita in cui io non c'ero, una specie di furto temporale. Tutto l'affetto che posso avere per la vita che ha vissuto senza di me.

Arriviamo alla banca che è metà mattinata. È ancora aperta. Elettra scende dall'auto, chiama con sé secondogenito e insieme entrano nella banca per chiudere il conto. Io resto con terzogenita fuori, camminiamo e non pensiamo. Io sono a pezzi. Non so quanto ho guidato, ma sono a pezzi. Guardiamo la città come si potrebbe guardare un panorama lontano, ma ci siamo dentro. La scena successiva siamo al campeggio di Älmhult, quello dove avevamo prenotato e che avevamo dovuto abbandonare perché si era fuso il motore. Elettra mi spiega il funzionamento del campeggio, mi fa vedere la casetta dove saremmo dovuti andare, il lago dove anni fa lei aveva fatto il bagno con terzogenita e dei serpenti marini erano spuntati nell'acqua e le avevano inseguite. Io sorrido, come in un sogno.

La scena successiva sono dentro al lago, con terzogenita. Se metto la testa sotto l'acqua vedo solo una foschia rossa. Nuoto così, con la testa sott'acqua e gli occhi aperti in questa nuvola rossa schiacciata dentro al lago. Mi immagino che da un momento all'altro da questa foschia rossa appaia un mostro, una delle mie tante paure della notte, e che mi divori, mi assalga. Ma non succede. È solo un lago, solo acqua rossa in cui nuoto. Non ci sono mostri marini, non ci sono pericoli che non siano quelli che conosco già. La scena successiva sono sdraiato su un asciugamano e quella ancora dopo sono in auto che guido, stiamo lasciando la Svezia.

Nel viaggio di ritorno ascoltiamo quasi tutto Il sentiero dei nidi di ragno. Non essendoci più primogenito c'è più spazio nell'auto. Nella scena successiva sono seduto dietro mentre secondogenito è davanti con Elettra che le dice delle cose. Calvino o chi per lui racconta e io chiudo gli occhi e crollo.

È stato solo un viaggio. Tutti abbiamo avuto la stessa cortesia umana di quando sei dentro a un supermercato, e invece era l'Europa. Quando sono arrivato a Genova sono sceso dall'auto e ho iniziato a scrivere. Dentro di me c'è una lingua che parla sempre, dentro la mia testa, parla e lecca. Ogni cosa che faccio ho dentro sempre questa lingua che parla, più sono solo più quella racconta cose, lecca i bordi della mia testa e parla. Ho scritto tutto un libro su questa lingua che ho dentro alla testa. Appena scendo dalla macchina quella prende a parlare, a dirmi di scrivere. Dimenticherai tutto, mi dice.

Dimenticherai Kassel, dimenticherai i russi nella cucina degli ospiti, dimenticherai il museo del Petrolio, dimenticherai il negozio nerd, dimenticherai l'odore dei tuoi vestiti bagnati, l'isola delle capre, la voce del meccanico dimenticherai il tuo dolore alla schiena, dimenticherai Elettra, i tuoi tre figli, quello che hanno fatto, quello che hanno detto, lo stai già dimenticando adesso. La nuvola rossa dentro al lago, il caffè di merda, dimenticherai tutti. Diventeranno frammenti, aneddoti, niente. Alcuni diventeranno niente. La mia lingua nella testa parla e mentre parla racconta e mentre racconta cancella.

È una bella merda: più racconta più lecca, e più lecca e più cancella. Sostituisce quello che mi è successo con il racconto di quello che mi è successo e poi il secondo rimpiazza del tutto il primo. Alla fine non mi ricordo più la mia vita, mi ricordo solo il racconto che ne ho fatto. Come mia nonna prima di me, come l'umanità prima di mia nonna. Tutti abbiamo una lingua nella testa che ci parla e ci consola, ricostruisce quello che abbiamo vissuto e lo mette a posto, usa la saliva come collante, mette in ordine, ci fa stare bene, rimuove con dei colpi duri di lingua le cose che non funzionano e poi si mette lì a raccontare. Tutti abbiamo un audiolibro della nostra vita nella testa, che continua le sue puntate quotidiane e più racconta più la nostra vita non esiste, la lingua la trasforma in un format, un serial, una fiction a cui ci aggrappiamo, che condividiamo, che diventa la nostra storia personale, pubblica. Bella merda ragazzi.

E io scrivo, sono ancora in viaggio che già scrivo dentro la mia testa, continuamente, mi segno quello che la lingua mi dice, scrivo tutto e poi a Genova mi siedo e inizio dico così siamo partiti ragazzi, io, adolescente di cinquanta e passa anni e mio figlio adolescente e mia moglie adolescente anche lei, mia figlia, altra adolescente e l'altro ancora, adolescente di mezzo, tutti e cinque seduti nella Citroen Nemo che brilla chilometro dopo chilometro, tutti con il proprio bagaglio personale, sacchi di roba, zaini, vestiti, cibo, tutti pronti per partire da Genova e diretti a Jorpeland, il nome è di fantasia, migliaia di chilometri di Europa da superare, scrivo tutto questo e poi vado avanti, giorno dopo giorno, mi metto lì e mi segno tutto quello che la lingua mi dice.

Finché — a un certo punto — la lingua è esausta. È secca. È molla, come se fosse venuta e non riuscisse più ad alzarsi, a muoversi dentro la mia testa. Ha detto tutto quello che poteva dirmi e mi ha lasciato così, l'adolescente di cinquant'anni con la sua storia scritta dietro a voltarsi e chiedersi. Ho detto tutto quello che potevo dire? L'ho detto bene? E poi la grande domanda: ma se ora rileggo tutto quello che ho scritto, cambierà qualcosa? Se rileggo tutto cancellerò davvero per sempre la mia vita, quella vera, sovrascrivendoci sopra questa invenzione di quel muscolo sfinito che è lì nelle ossa della mia testa?

È stato solo un viaggio e ora ricomincia la vita e piano piano sparirà. Verrà via come la pelle d'estate quando si brucia e tu la prendi, la tiri via e te la metti in bocca.