[bada-boom #3]
Più ci allontaniamo dall'Italia, più il caffè fa schifo. È una progressione lineare. Autogrill dopo autogrill quello che ti danno quando chiedi un caffè aumenta di prezzo e perde di gusto. Diventa una broda americana, l'ennesima, bollente e disgustosa. Dalla Svizzera alla Germania è un crollo del gusto moka, mentre nei paesi nordici non ci provano nemmeno: tutti i negozi hanno una macchinetta, come quelle che in Italia si tengono negli uffici o negli Hotel da poco. C'è il pulsante per il caffè americano, per il cappuccino, per il caffè con latte, quello per l'espresso (da non premere mai) e per altre varianti che vengono servite in un grosso bicchiere di cartoncino, delle dimensioni adatte a una Coca Cola del Mc Donald. Ai figli non interessa, a me ed Elettra sì, specie al mattino.
Il risveglio per noi due non inizia quando si aprono gli occhi, ma quando il caffè o il cappuccino caldi entrano dentro al nostro corpo. Prima non siamo svegli, siamo come esseri primitivi che si muovono in un mondo desolato e freddo. Mandiamo grugniti, ci guardiamo in cagnesco. Dopo il caffè o il cappuccino inizia la civiltà. Per una incomprensione familiare non abbiamo portato la moka con noi e quindi siamo persi. Desolati. Alla fine optiamo per il meno peggio: delle bustine Nescafé al cappuccino da sciogliere nell'acqua calda ma non bollente, spiegano le istruzioni in tedesco. Il Nescafé al cappuccino è disgustoso, ma cosa non lo è? Dolciastro, sa di finto, ma diventa la prima cosa che beviamo durante tutto il tragitto dall'Italia alla Norvegia e ritorno. Giorno dopo giorno entro in confidenza con questa polverina ambrata con dei pallini neri dentro, imparo che va messa l'acqua calda, rimescolato, bisogna attendere venti secondi e poi rimescolare ancora. Il Nescafé al cappuccino fa anche una schiumetta in cima. Se mescolo male ogni tanto inghiotto dei grumi che mi si aprono in bocca e rivelano la polvere acre con cui il cappuccino è fatto. Eppure, dopo due settimane, al cappuccino Nescafé gli voglio bene. Spero che finisca presto tutto, ma per ora gli voglio bene.
A Kassel entriamo in un franchising di cose da bere e mangiare, non ricordo quale. Stiamo andando verso documenta e abbiamo deciso di fare prima una breve colazione. Ci sono cose dolci da mangiare, le brioches man mano che si sale verso l'alto cambiano anche loro aspetto, si ingrandiscono, cambiano gusto. L'Europa è un guazzabuglio. Anche all'interno di un franchising non provi la serenità tranquilla di quando sei al Mc Donald e riconosci il prodotto. In Europa c'è ancora una varietà che confonde, che ti fa sentire straniero. Tutto intorno a te vedi una macchina occidentale che lavora, che uniforma, che compatta tutto in forme ed estetiche riconoscibili, che rimuove ed umilia quello che occidentale non è, ma ci sono ancora degli interstizi. Nel franchising per bere c'è la solita macchinetta, metto sotto il bicchiere di cartone e premo caffè ed esce la solita broda nera. Mi siedo con i miei figli e inizio a sorseggiare. Siamo tutti stanchi per il viaggio.
Per andare nei bagni di questo franchising bisogna chiedere alle casse, premono un pulsante e io e primogenito possiamo scendere ai bagni, che sono occupati. Non c'è nessuno in realtà, tranne le due persone che sono chiuse dentro e io e mio figlio nell'antibagno che aspettiamo. Primogenito ha in mano il suo smartphone: è lì con me, ma in realtà sta chattando con decine di persone nel mondo. Vedo le frasi in inglese che scorrono, il suo sorriso apparire e sparire dal volto, le sue dita che velocemente scrivono cose. È connesso, ed è lì con me. È mio figlio e tra un po' non lo vedrò più. Lo guardo mentre lui non mi vede, guarda il piccolo schermo che tiene in mano e rimango così a constatare la sua presenza, il suo prendere spazio, il suo essere lì con me, in un piccolo antibagno a Kassel. Devo affezionarmi anche a queste cose, questi brandelli temporali.
Poi mi cade l'occhio sulla spazzatura del bagno. Il bagno del franchising è tutto pulito, è ancora mattino, ma tutto è in ordine e lindo. Solo nella spazzatura c'è una piccola scatola di cartone, colorata. Abbasso la testa finché non vedo il disegno di una specie di termometro. Non capisco bene. Mi inginocchio davanti alla spazzatura e vedo che non è un termometro, è uno di quei test, quelli che devi farci la pipì sopra e possono venire una o due righe. Non capisco, dalle scritte in tedesche se sia un test per la gravidanza o uno per il covid. Infilo le mani nella spazzatura e giro la scatola, dalla parte del nome del prodotto, ma è in tedesco, non riesco a capire. Chiamo primogenito, gli chiedo se può inquadrare la scritta e tradurla. Lui alza la testa dai suoi amici, si avvicina, fa una foto alla scatola e la sottopone a Google Lens che traduce tutte le scritte.
“No, papà, non è un test di gravidanza, e nemmeno per il covid” mi dice poi, dopo aver letto. “È un test per la rilevazione di cocaina nelle urine” aggiunge alzandosi. Mi alzo anche io. “Ah” dico. Così, di prima mattina, prima o dopo il cappuccino, qualcuno è sceso nei bagni del franchising per controllare di non avere troppa cocaina in corpo. Quanta voglia di vivere, tutti questi adolescenti, come me. Ormai siamo senza adulti, è caduta la farsa della maturità. La vita è un'eterna adolescenza, solo che dopo un po' gli adolescenti invecchiano, diventano vecchi adolescenti, come me. Branchi di vecchi adolescenti che presidiano il loro diritto a godere, a ballare, a innamorarsi, ad essere cullati prima di dormire.
Mi tornerà in mente quel bagno quando mi ritroverò, una decina di giorni dopo, a St. Pauli, ad Amburgo. Il giorno prima ero nella civile Norvegia, nell'algida Svezia, immerso tra servizi sociali e parchi giochi per bambini, casette con i prati perfettamente tagliati e il giorno dopo mi ritrovo, di notte, nel casino della città tedesca, in un Hotel incastonato tra un sexy shop e un locale a luci rosse, circondato di gente che si guarda attorno con lo sguardo acceso e allucinato, come se cercasse qualcosa che non esiste, con ragazzini che mi chiedono se voglio fare sesso con loro e locali che pompano musica straniera per tutta la strada. Odore di urina per la strada, gente abbandonata per terra avvolta nei cartoni. Un solo giorno di viaggio e mi sembra di essere finito dall'altra parte del mondo.
E infatti ci sono: quella via, man mano che cammino la riconosco, l'ho già vista. È la copia di tanti film e serie americane. Non è un pezzo di Europa quello in cui sono, ma un pezzo di occidente, un frammento copincollato dall'immaginario della grande potenza americana. Eppure, quel frastuono, quel casino, quella sporcizia e quel degrado, anni luce dalla protezione dei paesi del nord, a me piace. Sono affascinato da quella vitalità, da quella voglia di divertirsi, di ferire, di fare del male, di fare quello che cazzo mi pare. In mezzo a quel casino mi sento protetto.
Quando arrivo a Genova, una delle prime cose che faccio è mettere su la moca e farmi un caffè, un vero caffè italiano. È lì che succede. Preparo tutto il caffè, con la voglia di berlo tenuta dentro per più di venti giorni. Sento il rumore del caffè che viene su, lo verso nella tazzina per me e in quella per Elettra con un dito di latte freddo, come piace a lei. Glielo porto che ancora dorme e intanto vado a bere il mio. Finalmente bevo un sorso, caldo e pieno.
E mi fa schifo.
Resto come fulminato. Ne bevo un secondo sorso e fa schifo come il primo. Lavo la macchinetta, cambio il caffè, arriverò nei giorni dopo a cambiare tutti i pezzi interni della caffettiera, ma il mio caffè continua a fare schifo. Finché non capisco: il mio caffè fa schifo come tutti gli altri caffè d'Europa. Ha sempre fatto schifo. Ma – negli anni – mi sono abituato. Mi sono assuefatto a pensarlo come il gusto buono del caffè. Sono bastati venti giorni per uscire dagli stereotipi del gusto e ora mi trovo estraneo anche a me stesso. E mi fa piacere.