[bada-boom #4]

Camminiamo chilometro dopo chilometro in un'Europa che ci appare dai finestrini come danneggiata, ferita dalle notizie che Elettra mi legge dal cellulare mentre guido. È un'Europa in cui si gode, ma male. Un'Europa che non riesce a nascondere una guerra che non si vede, lontana, non così tanto però da non emergere nei post sui social network. E più andiamo avanti, città dopo città, più consumiamo una parte di questa Europa: la benzina, il gasolio, l'elettricità. Ogni pieno calcoliamo i soldi che stiamo spendendo per muoverci e le risorse che stiamo bruciando. La nostra curiosità di viaggiatori consuma, continuamente. I prezzi del carburante sono spinti in alto da questa guerra che non si vede e questo ci fa sentire di più la fragilità delle risorse che abbiamo attorno. Non mi sento di attraversare una nazione forte e compatta, ma di essere in un debole territorio in guerra, diviso, incerto, con le infiltrazioni di una guerra che sembra omeopatica ma invece ha il suo sangue, il suo carico di morti.

Nel nord della Germania, in Danimarca, in Svezia e Norvegia emergono questi colossi a pale eoliche che girano al vento, silenziosi, lenti. Appaiono a decine sul profilo del mare, bellissimi e lontani. Mentre attraversiamo il ponte che dalla Danimarca ci porta in Svezia li vedo dal finestrino che si allineano e poi si disperdono, vorticando sulla linea dell'orizzonte. E poi le piastre scure, i tetti delle case coperti di pannelli solari, li guardiamo dai finestrini e intanto cerchiamo in rete quanto impattino sull'economia del paese che stiamo attraversando. Quanta cosmesi, quanta energia effettiva. Sembra di essere in un altro paese.

A Stavenger, in Norvegia, troviamo uno dei nodi di questa domanda, dentro al Norsk Oljemuseum, il museo del petrolio norvegese. Ci siamo andati con Elettra e terzogenita, che guarda, cammina con noi, ascolta le spiegazioni della madre e gioca con i dinosauri meccanici. I dinosauri, spiega il museo, sono i primi fornitori di petrolio. Ecco cosa alimenta la nostra tecnologia: carogne vecchie milioni e milioni di anni. Il museo è impietoso, mostra la conquista del mare, la scoperta del petrolio e del gas al largo delle coste norvegesi, elencando le centinaia di lavoratori morti in questa progressiva assimilazione.

La Norvegia, scopriamo, è completamente verde: vive grazie all'eolico, al solare, alle centrali idroelettriche. Ma il benessere della Norvegia è costruito sui suoi giacimenti di petrolio e gas. Sporco, tossico. Non li consuma la Norvegia: li vende all'estero. E lì, nel museo, la domanda è scritta nero su bianco, sul muro: quanto è etico per una nazione verde, completamente priva di consumo nucleare, di petrolio, gas e carbone, prosperare e vivere grazie alla vendita di risorse che invece inquinano all'estero la parte di mondo dove sono bruciate, lavorate, stoccate? Io e Elettra leggiamo la domanda e poi continuiamo a leggere i pannelli informativi successivi, per vedere la risposta, ma la risposta il museo non la dà.

Per la prima volta, viaggiando di nazione in nazione, sento che sto bruciando risorse ad ogni tappa. Che sto inquinando, bruciando olio, gas, per ogni singola cosa che faccio. Sono così pieno di novecento. E questa roba che brucio e consumo non è eterna, non lo sono io, non lo è lei. L'uomo cerca sempre nuovi stratagemmi perché la sua razza non scompaia dalla terra, ma per farlo deve fare una violenza continua. Sociale, economica, culturale. E io, mentre guido e penso queste cose, mi sento come un piccolo povero stronzo. Di notte, mentre gli altri dormono, penso che sono solo un piccolo povero stronzo che viaggia per la Germania, verso l'alto, verso il basso, con idee approssimative e confuse del mondo. Sono qua, a tenere la quinta, a non chiudere gli occhi, a seguire i dati che Google processa per dirmi dove andare, mangiandosi in cambio le informazioni sulla mia vita, dove sono, cosa consumo, a che velocità guido.

Mi sento un piccolo povero stronzo, ecco, con idee approssimative e confuse del mondo, capace di scrivere grandi ragionamenti etici, ma che non ha idea e voglia di uscire dall'arcobaleno unicorno del consumo. Mi aggrappo a quelle piccole idee approssimative e confuse. Mi servono soprattutto quelle, lo so. Servono tanti con idee approssimative e confuse, ma idee di un certo tipo e non di un altro. Idee che si nutrono di certe cose e non di altre che invece sono tossiche. Più delle mie. Anche il mio essere piccolo povero stronzo è utile per il mondo, per i miei figli, per le scelte che persone che non ho mai visto e non vedrò mai prenderanno prima o dopo. Tutto quello che penso di me, della mia vita, di questo viaggio e di quello che succederà dopo di me, che non è molto visto in prospettiva, lo devo comunque difendere con i denti, con i modi che ho di farlo, con le strategie che sono in grado di mettere in campo. Anche essere piccoli poveri stronzi costa una fatica non da poco.

Ad un certo punto, non so più quando, sono le quattro e mezza di notte. Metto la freccia, entro in uno spiazzo, un punto ristoro, non so cosa sia, mi fermo. Appoggio la fronte contro il volante, chiudo gli occhi. Non penso più a niente.