[bada-boom #8]
Per fortuna Elettra riesce a trovare un posto dove dormire, quattro notti. Non ci siamo mai fermati così tanto. Mentre io guido questa Volvo preistorica, lei allo smartphone zomma, cerca i dati della strada, mi dà delle indicazioni. Dobbiamo spostarci a Sandnes. Inizialmente avevo capito Sadness e avevo pensato ad una città che ci avrebbe liberato dalle nostre preoccupazioni. “Non è un appartamento” mi spiega poi Elettra, “è un Hotel”. Mi guarda.
In genere cerchiamo di andare a dormire in appartamenti, perché è più comodo e puoi usare la cucina. Avere la cucina è importante perché puoi fare colazione, mangiare un po' quando vuoi e non sei costretto ad andare ogni sera al ristorante o – peggio – mangiare cose prese nelle grandi catene del cibo d'asporto. In scandinavia fare colazione al mattino però non è semplice. Una volta, in un piccolo paese, sono uscito alle otto del mattino per andare a prendere un cappuccino o un caffè, anche di quelli loro lunghi, e portarne uno a Elettra. Mi sono ritrovato in una città fantasma. Tutto era chiuso. Andavo di insegna in insegna per scoprire che lì tutto apriva alle undici del mattino. Anche le caffetterie. Il tempo di vita è completamente diverso, devi cambiare anche tu. Avere una cucina ti permette di non cambiare, di restare turista, passare sopra la realtà che hai intorno. Viaggiamo ma ascoltiamo musica americana, italiana, siamo a scrivere messaggi sugli stessi social network che usavamo a Genova. La nostra bolla ci segue man mano che viaggiamo, si mette tra noi e la realtà fuori dal finestrino. Ogni gruppo di turisti è chiuso in una bolla invisibile con cui si protegge, cerca di rassicurarsi, di sentirsi come a casa. Il cappuccino, gli spaghetti al sugo, le foto su Facebook, i like.
L'Hotel ha il tipico aspetto dell'Hotel generico dell'occidente. Reception, check in, tessera magnetica come chiave, ascensore anche solo per andare al primo piano, la numerazione delle centinaia immaginarie. Moquette per terra e quadri anonimi alle pareti. Mentre camminiamo per i corridoi potremmo essere in qualunque parte del mondo. Poi entriamo ed esplodiamo: ognuno crolla nel suo letto, tutti i geniti si mettono a tappare i loro schermi, io ed Elettra cerchiamo le prese della stanza per mettere in carica tutto quello che possiamo caricare. Stacchiamo la televisione, tutto quello che non ci serve per tenere attiva la nostra parte di tecnologia. Tablet, smartphone, sigarette elettroniche, ebook reader, Nintendi, tutto emerge a galla per prendere boccate di energia, spasmodiche. Controlliamo il bagno, guardiamo dove sono gli asciugamani, le lenzuola, cerchiamo i dati per connetterci al wi-fi. L'essenziale.
A un certo punto esco, vado avanti e indietro dall'auto per portare le valigie e le sacche con i vestiti, i pigiami, le altre cose che ci servono per stare quattro giorni in quel posto. Devo anche spostare la Volvo più lontano, non c'è parcheggio lì attorno se non quello a pagamento.
Mentre vado avanti e indietro vedo questa porta sul nostro piano, un po' distante dalle altre. Non ha il numero, c'è una scritta sopra che inizialmente non riesco a leggere perché è troppo lontana, ma poi prendo e mi avvicino e vedo che c'è scritto “guest kitchen”. Rimango come elettrizzato. Cucina per gli ospiti. Finisco di portare le borse e annuncio ad Elettra la mia scoperta. “C'è una cucina degli ospiti” dico. Elettra alza la testa dal suo cellulare. “E noi siamo ospiti?” chiede. Alzo le spalle. Lo ignoro.
Esco e vado a parcheggiare la Volvo più lontano dall'Hotel. Giro senza navigatore in questa città che non ho mai visto prima, piccole casette bianche che digradano dalla collina e istintivamente salgo sempre più in ato fino ad arrivare ad una grossa costruzione sulla cima: un centro olimpico. Parcheggio di fronte al centro, scendo, chiudo la portiera mentre attorno a me tutto ruota. Si è alzato un vento fortissimo accompagnato da rapide scosse di pioggia e io a passo veloce mi dirigo dove – credo – possa essere l'Hotel. Nel centro olimpico ci sono dei ragazzi, in cerchio, che ridono e fanno qualche gioco mentre la tempesta sbatacchia i loro completi sportivi. Li guardo, cerco di farmi una idea di che tipo di società sia quella in cui mi trovo, che abitudini abbiano questi ragazzi.
Inizio a scendere verso il basso e le abitazioni sono quasi tutte unifamiliari. Fa impressione vedere le singole case, ognuna con il proprio giardino, il proprio posto auto. Tutto è regolare, pulito, nell'erba continuano a ronzare muti i robot tagliaerba. Pochissima gente per strada. Lo spazio tra le persone è incomparabile con quello a cui sono abituato a Genova dove le case sono costruite le une sulle altre, dighe di appartamenti fondate nel fango, auto incolonnate nelle strade troppo strette, espansione verso l'alto. Lo spazio e il tempo mi sembrano qua completamente diversi.
Arrivo all'Hotel e invece che salire di sopra vado alla reception per chiedere cosa sia la Guest Kitchen e la ragazza ascolta il mio terribile inglese e mi dice certo, la cucina è disponibile per tutti e lascia il bancone, mi segua, mi dice e mi precede al piano di sopra, arriva fino alla porta serrata e avvicina il suo polso alla maniglia che scatta elettronicamente: un braccialetto lasciapassare. Si apre allora la porta che rivela la cucina: fornelli, lavatrici, frigoriferi, pentole, lavandini, posate, piatti e bicchieri: sembra di entrare in una di quelle cucine che si vedono nei polizieschi americani quando uno dei personaggi scappa inseguito da un altro e nelle sue corse finisce nelle cucine dei ristoranti. La ragazza mi sorride e mi dice che posso usare tutto quello che voglio. Che sono felici se uso la loro cucina. In inglese chiedo se devo pagare qualcosa, e lei fa una faccia come se avessi detto un'assurdità. Si senta libero di usare quello che vuole, dice e mi sorride ancora e se ne va, lasciandomi lì, a guardarmi attorno.
Iniziamo a girare per i supermarket. Anche quelli hanno orari improbabili, ma con un po' di attenzione riusciamo a comprare i materiali per cucinare, carne per chi mangia la carne, verdure per chi mangia le verdure. Il Nescafé al cappuccino continua ad accompagnare il nostro viaggio. In cucina incontro diverse persone: un gruppo di lavoratori, forse russi, molto taciturni, vengono a lavare i loro vestiti nella lavatrici e a cucinare, alla sera tardi piatti che lasciano poi nel piano un odore acre e irrespirabile. Un ragazzo francese il giorno dopo mi chiede come funzioni la lavatrice e io rido e gli dico che è meglio che se lo faccia spiegare da qualcun altro.
In quella cucina, ad un certo punto, sono felice. Una cosa molto rapida, non più di cinque minuti. Sono seduto sul margine di una finestra da cui vedo lo skyline della città, è mattina, sto bevendo il mio cappuccino e guardo fuori. Ho parlato da poco con il ragazzo francese e per un attimo ho pensato a quella come la normalità: un posto non mio, che non mi appartiene, che posso usare per mangiare, in cui appaiono persone come me che vengono da nazioni diverse, che non parlano la mia lingua e io non parlo la loro, con abitudini e tradizioni che non conosco. La normalità di non dover difendere qualcosa, di dover pulire immediatamente quello che ho usato per farlo usare dagli altri, essere continuamente a contatto con gente completamente diversa. È una felicità ingenua che arriva dal passato, i residui di quando andavo negli ostelli, quando davvero pensavo al mondo come una comunità di gente ragionevole, capace di abbandonare il proprio interesse particolare per un nuovo modo di abitare il mondo. Come se fosse una cosa che si sarebbe dovuta creare da sé, per il semplice fatto che una nuova generazione di ragazzi stava prendendo spazio, portando nuove idee, nuovi modi di fare. È una sensazione che mi prende, non più di cinque minuti, una specie di speranza, una parte del mio essere adolescente, vecchio, che però ancora non si è irrigidita, che ancora crede nella mobilità delle cose.