[bada-boom #90]

Con me ci sono i miei figli, dietro che guardano fuori dal finestrino, abbandonati nei letti, in giro per strada. Si muovono, dicono cose, vedo i loro volti che parlano lontano con Elettra e non sento cosa dicono. Mi abbracciano all'improvviso, mi guardano male, si allontanano da me. Ho paura – a volte – di loro, di infrangere il debole patto per il quale io sono loro padre e loro i miei figli. Non c'è niente nella carne che debba fare funzionare questa cosa, ma è così che ci svegliamo e addormentiamo, vicini o lontani che siamo. Sono loro padre e sono un adolescente come loro, solo che sono stato ferito più volte, ho visto più cose, ho fatto più errori, ho meno roba in circolo nel corpo. Ho visto più cose cambiare, sentito più volte le cose infrangersi. Mi sono sfasciato più volte di loro, per ora.

Delle persone che non sono i miei figli, quelle che incontro per il mondo, anche il meccanico che incontrerò a Jorpeland, il tipo indiano dietro al bancone del Peppes Pizza, la norvegese che ci ospita nel suo appartamento del piano di sopra e che incontro sempre in ciabatte e accappatoio, anche quando è fuori che porta fuori il cane e piove, di tutte queste strane persone io mi faccio una idea. Mentre mi parlano io ascolto, sorrido e piano piano mi faccio una idea. Come una pallina del Pachinko che scende per i passaggi binari e alla fine trova un suo posto, così io ascolto e parola dopo parola faccio scendere la pallina che alla fine si ferma, e quel posto è l'idea che mi sono fatto della persona. Gentile, avido, scassacazzo, geniale, riflessivo, attento, completamente idiota, pericoloso, tossico, a.i.u.t.o., dolorante, energico, tonico, ad ognuno affibbio la mia etichetta, ancora mentre stanno parlando.

Si tratta, è chiaro, di una forma di autodifesa. Quelle persone non sono davvero l'idea che mi sono fatto di loro, ma a me serve quell'idea per poterle gestire. Spesso andando avanti mi rendo conto di dover fare piccole aggiustature o vere e proprie retromarce e a volte mi dispiace. Faccio errori anche grossolani perché mi ero affezionato alla prima idea che mi ero fatto, era più bella la prima persona che avevo inventato dentro di me e ora, di fronte alla persona reale mi rifiuto di adeguarmi. Continuo a fingere di essere con quell'idea prima.

Durante il viaggio mi rendo conto che con i miei figli non ci riesco. Sono lì attorno a me per tutto il tempo della mia giornata, lo sono da anni, li ho visti tutti e tre uscire dalla pancia della loro madre, li ho visti diventare dei mutaforma, perdere denti, capelli, fare sbucare sessi, allungare la spina dorsale, mutare la voce, li ho visti piangere, cercarmi, ridere fino allo sfinimento, dormire con la mia mano tra i loro capelli, ma non mi sono ancora fatto una idea su di loro. Quando gli parlo, la pallina di Pachinko diventa sempre più trasparente man mano che scende, diventa una forma pura e anche il labirinto colorato e luminoso si contorce fino a diventare una stella mutante e un dedalo di cui di tanto in tanto riconosco parti del mio passato comune con loro, altre volte sono uno straniero in viaggio, che passa in paesi di cui non riesce nemmeno a leggere bene il nome del cartello stradale. Dei miei figli non ho una idea.

Mentre scrivo vorrei stereotipizzarli, farli diventare dei personaggi e non ci riesco. Sto scrivendo un libro e tre personaggi principali non vogliono avere né descrizioni dirette né indirette, niente narratore onniscente che ci fa entrare nella loro testa e nei loro pensieri, niente oggetti magici, antagonisti, niente spannung. Questi tre figli sono nelle mie parole, infilati nelle cose che scrivo, ma non sono né protagonisti né comparse. Sono ognuno in un loro romanzo personale, illeggibile, quando fissano il vuoto senza dire niente, quando ridono a qualcuno che non vedo, quando saltano sull'altalena e hanno gli occhi dello stesso colore del cielo norvegese coperto dalle grosse nuvole che arrivano dall'atlantico.

Quando avevo iniziato questo libro avevo pensato che avrei scritto un sacco di dialoghi con loro, le cose folli che fanno, le scene che accadono nella famiglia che a volte sembrano uscire fuori da un televisore. Invece ci siamo trovati così vicini, per così tanto tempo, siamo stati silenziosi, attenti, durante il bàdabùm senza perdere la testa, che alla fine anche noi cinque ci ritroviamo ad essere un impasto, una materia messa assieme che va in giro e di cui non riesci a farti una idea. È l'ultimo momento della nostra vita in cui viaggiamo tutti e cinque assieme, man man che passano i giorni ce ne rendiamo conto. C'è stato un momento magico in cui siamo stati una famiglia di cinque persone, e questo momento sta passando, ora.

Adesso mentre sono in piedi con la pistola in mano a fare l'ennesimo pieno di diesel, provando la sgradevole sensazione che tutti quei litri che sto infilando dentro l'auto bruceranno tutti, li consumeremo per andare avanti, per non smettere di muoversi. Adesso che Elettra apre il finestrino e mi chiede se è il caso di controllare l'olio, che sente odore come di bruciato e io le dico no, ho fatto il cambio tre giorni prima, alla partenza, ne abbiamo sicuramente ancora un sacco.