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Quando arriviamo con la Volvo dal campeggio scendiamo e ci comportiamo come se fossimo al primo giorno della nostra vacanza e non l'ultimo. Prendiamo possesso del bungalow, organizziamo il trasporto delle varie borse, ci insediamo con la stessa serietà e determinazione di una famiglia all'aprirsi dell'estate. Primogenito va a esplorare il lago, secondogenito si chiude nella stanza del bungalow, terzogenita prova a fare amicizia con qualsiasi forma di vita che abbia più o meno la sua età. Io e Elettra proviamo a fare un'aperitivo, a festeggiare il fatto di essere ancora lì e non avere ucciso nessuno. Giriamo, andiamo in cerca di una birra ma inutilmente: fuori dal campeggio c'è la natura, la natura norvegese. Niente birra.
Alla sera cammino nel campeggio, guardo le piccole casette, le tende piantate. Vado fino al lago e lo vedo lì, schiacciato dalla grande mano dell'atmosfera, livellato dalla gravità mentre la luce del sole – lentamente – inizia a trasformarsi in quella strana luce bianca che hanno i paesi del nord nelle ore serali. Si sentono i rumori, singolarmente, il suono improvviso di qualcosa che si è mosso nell'acqua, il muoversi della canoa ormeggiata vicino alla spiaggia.
Continuo a camminare e vado nella zona più lontana del campeggio, dove ci sono altri bungalow, ma molto diversi dal nostro, sembrano delle piccole case. Davanti ci sono degli uomini e delle donne, spesso anziani, seduti nelle loro sdraio che parlano o mi guardano. Non so da dove vengano. I bungalow sembrano qua delle vere e proprie case, con un abbozzo di guardino, fiori, piccole costruzioni ornamentali. Le persone che sono lì davanti si comportano come se fosse casa loro, vedo uno che sta riparando qualcosa, mi fissano mentre passo, come se fossi uno straniero che sta camminando nella loro città e non come un turista identico a loro. Finché, a un certo punto lo vedo.
In ogni casetta, infilata dentro, c'è una roulotte o un camper. Un relitto di roulotte che ha fiorito il resto della casa e ora ne è rimasta sommersa e nascosta. Torno indietro e riguardo tutte le casette per capire se ho visto bene e — sì — tutte le casette che vedo sono gemmazioni di un camper o di una roulotte che è incastonata dentro. A volte il corpo spunta dal fondo della casa, a volte ne intuisco la porta e la forma spiando da una delle finestre, altre volte una ruota emerge dal corpo centrale, come un arto di insetto rimasto pietrificato all'interno di un enorme parassita. Rimango a fissare quel processo, mi immagino la legislazione che ha contribuito a quella specie di mutazione planimetrica e ne sono affascinato. Sono case viaggianti che a un certo punto si sono fermate e hanno iniziato a crescere, a mettere radici. I viaggiatori che le guidavano ora tornano tutte le estati a rimetterle in vita, ma non partono più. È un viaggio statico che fanno ormai mentre quelle — di anno in anno — metamorfizzano, crescono, sbocciano nuove stanze, partoriscono altri ingressi.
La mattina dopo ci sparpagliamo per il campeggio, aspettiamo tutti la telefonata del meccanico. Puliamo la casa, rimettiamo tutti i bagagli nella Volvo, ma senza avere il coraggio di partire. Se il pezzo non arrivasse nemmeno oggi, dovremmo fermarci ancora un giorno, o — altra ipotesi — salire tutti sulla Volvo e lentamente immergerci nel lago, come in un film di Wes Anderson andare nelle profondità del lago per scoprire e fare amicizia con mostri e spiriti norreni, incagliarci sul fondo di questi laghi millenari e lì restare a fissare il mondo subacqueo finendo di leggere i romanzi che ci siamo portati in viaggio e ascoltando dall'autoradio la musica degli abissi.
Il meccanico non chiama. Passa l'una e non ha ancora chiamato, e a questo punto diciamo a primogenito di chiamare lui e primogenito prende il telefono come se pesasse tonnellate e si allontana tra gli alberi, noi da distante lo vediamo parlare mentre passeggia per il campeggio, annuisce, dice qualcosa con serietà e poi mette via il cellulare e torna da noi, si siede dice che il tracking dice che il pacco è in arrivo. È lì, è oggettivamente più vicino al meccanico che al resto del mondo, anche se ancora non è arrivato. Ma il meccanico confida che ormai arriverà, che è davvero improbabile che non arrivi, a meno che il corriere non abbia un incidente a sua volta, ma è un ipotesi piuttosto remota, dice, ormai è questione di poco e il pacco con dentro il nostro turbo arriverà. Appena il turbo arriverà, il meccanico ci chiamerà e poi monta il turbo, piuttosto non chiude l'officina, paga una pizza ai ragazzi per restare fino a cena, ma ci monta il turbo.
'Sempre che questa volta gli abbiano mandato il pezzo giusto' penso tra me e me ma decido che questa botta di ottimismo me la tengo per me. Non sia mai che poi succede davvero e mi sento pure in colpa per averlo pensato. Restiamo lì, a muoverci attorno al lago, camminiamo come formiche a cui abbiano tolto la briciola di pane e ora non sappiano bene se restare ad aspettare che ricada o se meglio tornare al formicaio, un antropologo potrebbe scrivere un saggio breve sulla famiglia venerandi in questa giornata, le tensioni, i meccanismi di autodifesa, di controllo dell'ansia, dell'amore. E poi il telefono squilla. Primogenito risponde, annuisce, mette giù. “È arrivato” dice. A queste parole mi commuovo, guardo con gli occhi che sorridono gli altri che sono contenti, cazzo, sono contenti anche loro e cammino un'ultima volta sul bordo del lago e mi sento come Nanni Moretti, mi metterei ad urlare “epidurale per tutti!” solo per il gusto di sentire la mia voce che rimbalza sulla superficie dell'acqua.
Quando, quattro ore dopo, il meccanico ci restituirà la nostra Citroen Nemo, ci confesserà che la notte non aveva dormito. L'ho anche già scritto. “Non ho dormito pensando al turbo” ha detto, “a voi che lo aspettavate”. “Anche noi” gli abbiamo risposto, e abbiamo riso tutti nervosamente.
A questo punto partiamo, siamo tutti e cinque di nuovo nella Nemo, di nuovo in viaggio con due missioni ancora da compiere e senza tempo per portarle a termine. “Andiamo diretti ad Älmhult a chiudere il conto in banca” diciamo ai tre figli nei sedili posteriori. È quasi sera e partiamo. “Dove ci fermiamo a dormire?” chiede primogenito da dietro dopo un po' che stiamo andando. Io e Elettra ci voltiamo a guardarlo. L'auto sbanda per un attimo. “Nessuno ha parlato di fermarci” dice Elettra. Primogenito deglutisce, piano. “Ma da Jorpeland a Älmhult ci sono mille chilometri, saranno almeno dodici ore di viaggio” protesta. Mi schiarisco la voce. “Almeno” dico. “Ma è facile che ci metteremo qualcosa di più. La nostra missione comunque è arrivare ad Älmhult entro mezzogiorno di domani, prima della chiusura delle banche. Non possiamo fermarci a dormire”. Primogenito si butta all'indietro contro il sedile. Forse vuole protestare ma a quel punto parla Elettra. “Non preoccuparti, comunque. Tu ad Älmhult non ci arrivi. Ti molliamo a Goteborg. Stanotte. Hai un treno alle quattro che ti porterà a Stoccolma” e sorride. Abbiamo di nuovo un piano. Sorrido anche io. “Mettiamo un po' di Svevo?” chiedo accendendo l'autoradio. Gli sventurati non rispondono.