[bada-boom #ff]

Tra la zona del porto dove siamo noi e la parte opposta c'è una specie di enorme palazzo. Un condominio, ci toglie completamente la vista. È una grande nave, una nave da crociera, ormeggiata nel piccolo porto di Stavenger. Io e terzogenita la guardiamo in silenzio, mentre finiamo di riposarci. Osservo le singole parti di cui è composta, sembrano i balconi di centinaia di appartamenti, vedo anche qua e là qualche omino piccolissimo, appoggiato alla balaustra della sua piccolissima abitazione, che ci guarda. È un condominio sull'acqua.

Mi giro verso terzogenita. “È grossa” dico e lei annuisce. Non fa commenti. “Pensa – le dico – quanto deve inquinare”. Terzogenita si volta verso di me. Non so se sto dicendo la cosa giusta. Forse dovrei dirle “guarda come è bella. Come deve essere bello viaggiare su un condominio nel mare”, ma non mi riesce. Più guardo quegli appartamenti più penso ai tubi, alle centinaia di tubi che devono essere lì dentro a raccogliere cose, merda, scarti, spazzatura per poi scaricarli in mare. Visto così, enorme, di fronte a noi, penso che deve essere una quantità impensabile di scorie che in ogni momento quel colosso scarica. “Pensa – dico a mia figlia – quanta energia deve servire per muoverla, per tenere accese tutte le luci, tutto il riscaldamento, l'elettricità per cucinare, un intero palazzo. Quante risorse vengono bruciate per fare in modo che questa cosa funzioni. Perché quelli lì dentro siano felici”. Terzogenita torna a fissare la nave, non dice niente. Annuisce. Poi fa uno scatto e corre via da Elettra.

Forse dovevo dirle “pensa quanto sarà bello quando ci viaggerai per la prima volta”. Ho sbagliato. Parlare è una storia a bivi, devo fare una scelta. Ogni scelta è sbagliata. Guardo terzogenita, si sono mossi tutti, risaliamo verso la parte dei negozi, le nuvole ora sono cariche di pioggia.

È sempre a Stavanger che a un certo punto io e i miei figli ci fermiamo davanti a un negozio, in vetrina c'è un cartello che dice, in sostanza, “di giorno studentessa, di notte nerd”, e il testo accompagna il disegno comic di una ragazza nella mise giornaliera da studentessa e quella notturna da nerd.

Entriamo e ci troviamo in un tripudio di materiale che riconosciamo subito: manga giapponesi, dadi da gioco di ruolo, manuali, giochi in scatola, libri nerd per bambini in età prescolare, tipo “la fisica quantistica spiegata a mio figlio”, modellini di personaggi Marvel e DC, anime, gadget legati al mondo dei videogame, magliette di film di Miyazaki, tazze di Zelda, edizioni giapponesi di merendine europee con gusti coloratissimi, bicchieri con cibo giapponese liofilizzato, fumetti americani, internazionali, spade Jedi di Star Wars, spille ispirate a qualche cose di raro e sconosciuto del mondo nerd che qualcuno, da qualche parte, riconoscerà nella giacca in cui le avrai infilate. Siamo letteralmente a casa e ci muoviamo come in una specie di paradiso e – notiamo dopo un po' che giriamo – non c'è niente scritto in norvegese.

Siamo usciti dalla Norvegia: tutti i testi sono in inglese. Tutti i libri, i fumetti, i manga, sono nell'edizione inglese, chiunque li può comprare. Siamo in una zona franca, siamo in quella zona transnazionale che unisce persone che non si sono mai viste e che – ora – in quel posto trovano una piccola ambasciata del loro stato, rassicurante, con i confini ben precisi, ricco di simboli condivisi.

È lì, mentre cammino per i corridoi, mentre vedo la faccia di Totoro con la sua espressione indecifrabile su una t-shirt, la sagoma di Pac-Man, la skyline di qualche città del Signore degli anelli da ricostruire con i Lego o il volto tormentato del giovane Harry Potter su uno zainetto, è lì che mi rendo conto di come tutto quello che mi circonda sia affascinante e grottesco nello stesso tempo. Mi vedo dall'esterno, un uomo di cinquantaquattro anni che gira con lo sguardo entusiasta nel mezzo di colonne di merchandising identiche a quelle che potrebbe trovare nei negozi nerd di Genova, di New York, di Tokyo.

Quello che ho attorno non è lo stato transnazionale che sognavo, non è una comunità che si ritrova e si riconosce ma sono sempre le stesse scaglie del capitalismo, preparate con cura per colpire proprio me, mettendo assieme i relitti della mia infanzia, i residui della mia nostalgia degli anni ottanta, reloaded, ricaricati e rilucidati per farli sembrare più affascinanti e per colpire anche i miei figli, di rimbalzo.

Quando mi trovo davanti all'enorme pupazzo giallo di Pikachu capisco che è lui che tiene in mano la pallina rossa e bianca e dentro ci siamo noi, siamo lì davanti a lui a combattere per ottenere quello che basta per prendere la dose quotidiana di Pokemon, di volumetti manga, delle action figure di JoJo. Siamo lì a combattere nell'arena per tenere vivo questo regno Pokemon fatto per noi, adolescenti di tutte le età. Mia figlia di dieci anni, mio figlio di diciassette, quello di ventuno, e io, l'adolescente vecchio di cinquantaquattro che continuerebbe a comprare giocattoli come li comprava da piccolo, che vorrebbe continuare a mettere questa roba vicina al modellino di Gundam che si era preso nel 1982, quando aveva dodici anni.

Sono lì, ma potrei essere in qualunque altra parte del mondo. Per questo avevo – a fatica – scritto le mie sei o sette righe di Assembly negli anni ottanta? Per questo, da ragazzo, ero andato a vedere al cinema Akira, il primo cartone animato violento, il primo cartone animato per adulti? Per finire a girare in un supermercato di gadget in Norvegia? Per vedere la ricostruzione in vitro degli anni ottanta di Stranger Things?

Il consumo mi insegue per l'Europa, è un fantasma che si aggira colorato e non c'è niente che possa farlo diventare blu con la faccia terrorizzata se non se stesso. Quello che provo è un sentimento secco di amore e di estraneità per quello che ho attorno. Quelle non sono le mie passioni, sono la parodia delle mie passioni. Quel paradiso nerd è l'opposto del documenta che avevo visitato qualche giorno prima a Kassel. Là c'erano negozi ricostruiti con merci immangiabili e loghi internazionali, cibo trasformato in marmo e bronzo dal capitale. C'era l'artigianato spezzato di cose che non si possono comprare. Qua sono circondato da volti amichevoli, infantili, rassicuranti che vogliono la mia carta di credito, in maniera sfacciata.

Mi sento un traditore, lì in mezzo, a non essere felice. Continuo a girare per i corridoi per cercare lì in mezzo qualcosa di vero, qualcosa che mi faccia sentire che quella massa di materiale ha delle fibre animali, ma non le trovo. Sono sommerse dal resto. Mi sento un traditore perché so che quel mercato finge di essere implacabile ma è fragile. È letale nel suo complesso, ma ogni singola scaglia si potrebbe spezzare in un secondo. È già successo. E se qualcosa – tra le cose esposte sotto i faretti – scomparisse, so che ci soffrirei. Sono un traditore e sorrido lì in mezzo, prendendo le cose in mano, soppesandole e rimettendole a posto.

Quando andiamo verso l'uscita mi aspetto di trovarmi in un punto random dell'occidente nerd. Come se queste ambasciate fossero canali di comunicazione tra territori diversi, uniti e collegati assieme dai loghi degli animaletti antropomorfi visti prima, dai maghi adolescenti, soldati imperiali. E invece ci ritroviamo ancora a Stavanger, battuta finalmente da una pioggia fredda e vera nella quale ci precipitiamo per cercare di raggiungere la Volvo.