[bada-boom #k]

Tra la Danimarca e la Svezia c'è un ponte che – a un certo punto – si immerge sottoterra e diventa un lungo tunnel subacqueo. Si chiama Øresund e quando arrivi nella parte che si immerge sotto all'acqua fai tutta questa parte con l'ansia che sopra di te c'è una enorme massa d'acqua, invisibile e pesante. È lì che succede. Lo stiamo percorrendo con calma, cerco di tenere il motore a regime senza superare il limite di velocità, nessuno parla e guardiamo fuori dal finestrino la strada che prosegue nella galleria da una parte e dall'altra nella luce innaturale ed elettrica. Ad un certo punto, improvviso un rumore, enorme, secco, atlantico. Mi giro e vedo i ragazzi che si guardano attorno con nervosismo, non capiscono, e poi Elettra che si volta e dice o mio dio e allora vedo, nello specchietto retrovisore, i massi di cemento armato che cedono, che crollano sulla strada e poi le luci che iniziano a lampeggiare e – dietro – l'acqua, feroce, scura, rapidissima, il frastuono dell'acqua che sta prendendo spazio, tutto lo spazio mentre io premo l'acceleratore a tavoletta e non penso a niente.

Succederà la stessa cosa quando saremo sul Preikestolen, questo masso a precipizio sul vuoto. Dopo aver camminato un'ora buona mi fermo un attimo per bere e allora passa secondogenito e io gli chiedo dove è sua sorella, terzogenita. E lui mi risponde che è già andata avanti. “Da sola?” dico io e secondogenito alza le spalle e io riprendo a camminare, la cerco con gli occhi e non la vedo, dovrebbe essere lì davanti a me e invece non c'è, inizio a correre nel pezzo finale, e più mi avvicino al masso che dà nel vuoto più cresce la mia ansia di non vedere mia figlia, finché non arrivo a questo questo crocicchio di turisti sul bordo che urlano, una ragazza piange mentre il fidanzato l'allontana e io chiedo cosa è successo, in inglese, what's happened? e il ragazzo si gira per un attimo e dice che una bambina, avrà avuto dieci anni, si è sporta ed è precipitata di sotto era da sola, si è sbilanciata per vedere di sotto, ha perso l'equilibrio ed è caduta nel vuoto. E io mi avvicino, sono terrorizzato, non so se guardare anche io di sotto e riconoscere il suo vestito cobalto e quando arrivo dove ci sono i turisti tutti si voltano verso di me e dicono, ecco, è arrivato il padre.

Così. Mentre guido, cammino, mentre sono nell'appartamento a cucinare, di tanto in tanto succede. Tutte le cose a cui voglio bene scompaiono. I figli, Elettra. Più entriamo nell'Europa, giriamo per le sue strade, ci allontaniamo dalla routine, più mi rendo conto della fragilità di cui siamo fatti. Delle paure e dei terrori che hanno costruito le impalcature dentro la mia anima, anno dopo anno. È una cosa irrazionale, che non fa suono, che viene – esplode – e poi se ne va lasciando delle finte macerie che però qualche consistenza ce l'hanno. Come quei pesci dell'acquario di Konrad Lorenz che più si allontanano dalla loro tana tanto più perdono coraggio, più entro nell'Europa più mi rendo conto che la mia integrità è una cosa sottilissima. La paura che ho verso i miei figli è una forma tossica del volere bene, che controllo per fortuna, ma che mi resta dentro. Un parassita.

E – chiuso nell'abitacolo dell'auto – ogni tanto ritrovo pezzi di me in quei tre ragazzi nei sedili dietro. Ogni tanto dico qualcosa e un Fabrizio femmina fa la sua battuta sarcastica, un diciassettenne chiosa un ragionamento inatteso, un ventiduenne inizia a fare un discorso con Elettra in cui mi riconosco, non nelle cose che dice, nel tono, negli atteggiamenti, nel disprezzo ingiusto ed assoluto che avevo alla sua stessa età. Costretti nel medesimo spazio questi tre animali mandano il loro odore, si staccano da quello che sono, mostrano la loro autonomia e lo scarto rispetto a quello che sono e quello che sono stato. Ma ogni tanto – come i Visitors – si strappano la pelle dalla faccia e sotto ci vedo un pezzo della mia faccia, qualcosa che gli ho buttato addosso e che gli è rimasto come un segno che faticheranno, lo so, a rimuovere del tutto. Una presenza di me che apparirà chissà quando, magari una sera chiusi in bagno a guardarsi allo specchio, o mentre diranno qualcosa a loro figlio e non sapranno perché lo stanno dicendo. Un relitto che resta dentro.

Dentro di loro, lo so, covano come germi tutti gli errori che ho fatto. Tutte le cose che anche io ho detto perché le avevo sentite quando ero un bambino. Tutte le paure, mie, che ho trasmesso a loro. Tutti i miei meccanismi di difesa da adolescente vecchio. Anche quelli li ho usati contro di loro. Quando nella notte guido e so che sono la dietro che non parlano, che cercano scampo nel silenzio e nell'indifferenza li amo e ho paura per loro.

E li ferisco, ancora, come un tempo. Ho in mente tutti gli errori che gli ho buttato addosso, le cose che ho detto e che ho fatto e mentre le facevo o le dicevo uscivo dal mio corpo, mi vedevo da fuori e pensavo, ma cosa cazzo sto dicendo. Ma cosa cazzo sto facendo. Eppure andavo avanti, fino a fine corsa, preso dalla rabbia, dalla paura, dai pezzi grossi dell'ignoranza. Vedevo i loro occhi spaventati, o non abbastanza spaventati, i loro corpi che subivano o venivano agitati dalle mie parole e poi tornavano dritti. E io mi allontanano in preda ancora della rabbia ma piano piano capivo che ero rabbioso con me, per quello che avevo detto o fatto, per come avevo detto o fatto quelle cose ai miei figli, perché non era quello che volevo. Perché lo vedevo che era un errore, era palese. E alcuni errori emergevano naturalmente nel momento in cui li facevo, altri no, ci voleva del tempo, perché accettassi il fatto di averli fatti, così, come un cretino.

E non puoi tornare indietro, cancellare, fare l'annulla. Le cose che dici e che fai ai tuoi figli ritornano, ti ritrovi anni dopo a vedere tuo figlio morfare lentamente, prendere la tua faccia, la tua voce e fare lo stesso sbaglio, dire la stessa cosa a suo fratello o a un estraneo e tu guardi questo e ti vedi da fuori, ragazzino, e soffri.

Così a Oslo, al parco Vigeland. Non ho mai letto niente di Vigeland su nessun libro di arte. Non so perché, me lo sono sempre chiesto. La prima volta che c'ero stato ero rimasto colpito dalla bellezza di queste statue realistiche ma nello stesso tempo surreali, simboliche. Affascinato dall'opera di un solo uomo, dalla grande quantità di queste opere apparentemente sparse nel parco, ma in realtà in relazione tra di loro, anche a distanza. Coppie che si abbracciano, padri che picchiano i figli, ragazzine colte nel fiore della loro adolescenza, vecchi solitari, madri statuarie che allattano: un intero parco dedicato all'umanità e al tempo, alle connessioni tra le persone, ai nuclei che si creano e si distruggono nel corso degli anni. Forse troppo didascalico, troppo realistico, troppo popolare, di Vigeland non ho mai studiato nulla, è come un posto fuori dal tempo.

Quando ci torniamo con i tre figli io e Elettra giriamo come se questo posto l'avessimo scoperto ieri e ci fossimo tornati subito il giorno dopo, per farlo vedere ai figli, invece sono passati trent'anni. E le sculture sono lì, come ce le ricordavamo. Una copia di quelle opere era rimasta in una parte della nostra memoria, come un calco. Gli originali sono ancora lì, e rimango impressionato, stupidamente, per la persistenza dei materiali.

E io e Elettra siamo entusiasti ancora come la prima volta e vorremmo passare questo entusiasmo ai nostri figli, che invece non si entusiasmano. Non fa parte della loro storia, non adesso. Forse proprio il nostro entusiasmo li rende più apatici, scostanti. Forse sono solo stanchi per il viaggio. Forse – semplicemente – non gli piacciono le statue. Ma più camminiamo nel parco, più l'indolenza e l'insofferenza dei nostri figli ci ferisce. Io e Elettra avevamo immaginato una bella storia che non sta succedendo. Primogenito sparisce, secondogenito gira tra le statue guardando il suo smartphone, terzogenita chiede di andare in un parco giochi lì vicino. Le nostre aspettative vanno in palla.

E un certo punto succede. Chiedo a terzogenita di guardare con me dei bassorilievi e lei gira e ride guardando nel vuoto, sta pensando ai fatti suoi, passa davanti ai bassorilievi senza guardarli e io sbotto, la prendo di petto, le urlo di tornare indietro e guardare i bassorilievi, che abbiamo fatto più di mille chilometri per vedere quel parco e ora lei mi fa il piacere di tornare indietro e guardare i bassorilievi e più parlo, più urlo, più vedo il suo volto terrorizzarsi e piangere, più esco dal mio corpo e mi vedo da fuori e dico che cazzo stai facendo, Venerandi, ma cosa cazzo stai dicendo. E lei torna indietro in lacrime e io resto solo, e poi appare Elettra con la figlia in lacrime e mi dice delle cose. “Bravo” mi dice. E poi mi dice altre cose.

Anche Zeno Cosini in un momento del suo romanzo fa una piccola elissi. Zeno dice tutto, confessa tutto, mente, ma confessa ogni cosa che fa e che dice, non ha nessuna vergogna, mai. Tranne che in un punto, un dialogo con Ada, la donna che lui ama, a modo suo. In quel punto Ada si rivolge a Zeno e gli dice delle cose terribili e Zeno rimane travolto da quelle parole e scrive candidamente : “io feci del mio meglio per dimenticarle e vi riuscii”. E non le scrive, è una cancellazione, un pezzo della memoria di Zeno che non abbiamo, che non è rimasta.

Per sopravvivere mettiamo le parole che fanno più male in una zona della memoria che possa cancellarle, lenirle.

Io lì invece le prendo perché sono giuste. Perché nel momento che ero scattato contro terzogenita sapevo che stavo facendo una violenza, un errore. Elettra è arrivata e lo ha corretto, per tempo. È tornata indietro, è riuscita a ricucire, è entrata nel corpicino di terzogenita, rotto dai singhiozzi e ha ricostruito l'ambiente. Le ha mostrato il nostro e il suo dolore, ha preso le distanze, ha fatto in modo che il parco tornasse a essere un posto in cui stare assieme. Se devo pensare a cosa è una famiglia è questa capacità di vedere la sofferenza di chi ti sta vicino e trovare una strategia per empatizzare, per circoscrivere, per neutralizzare la causa del dolore. Per prenderne consapevolezza, per combatterlo assieme.

Elettra l'ha fatto, lì, circondati dalle statue di padri, madri, figlie e adolescenti siamo anche noi un piccolo gruppo scultoreo che cammina, si abbraccia, ride, fatica. Sa che la linea tra la soddisfazione e il dolore è fragile e umana.