[bada-boom #mm]
Il viaggio è lunghissimo, durerà molto di più delle dodici ore previste, chilometro dopo chilometro diventa notte e ci muoviamo in una atmosfera irreale. Alle strade si alternano gallerie che si rivelano poi tunnel che procedono verso il basso, per tempi lunghissimi. Sembra di entrare nelle viscere della terra. Le auto per strada diventano sempre meno e Google Maps inizia a portarci in posti inesistenti, accessi autostradali che sono chiusi al traffico, svincoli bloccati. Dietro dormono tutti tranne primogenito che cerca percorsi alternativi, costringe Google Maps alla realtà e ci ritroviamo in strade secondarie a tentare di superare i tratti che — in Norvegia come nel resto del mondo — di notte sono inaccessibili per lavori. “Anche qua le autostrade fanno schifo” dice, nel cuore del buio, Elettra e un po' questa cosa ci rassicura.
Non è la prima volta che succede nel viaggio. Quando siamo in Italia abbiamo una visione del resto del nord Europa come un luogo di perfezione, mentre poi — alla prova dei fatti — è un posto dove alcune cose funzionano e altre non funzionano. È tutto un grosso impasto questa parte del mondo, ci sono cose che passano le frontiere, altre no. Ci sono correnti, venature che solcano persone che parlano lingue differenti, mangiano cose diverse, credono altre divinità; sono come lingue di metallo che tengono unito un continente e sono liquide, scorrono e mutano continuamente.
Nel cuore della notte finalmente siamo instradati verso Goteborg, ho messo della musica per non dormire e il resto della macchina crolla nel sonno. Anche Elettra che non dorme mai adesso è lì vicino a me con gli occhi socchiusi e la bocca leggermente aperta a mostrarmi i denti della stanchezza. Prince grida dalle casse che lui è un testimone dell'accusa e io mi infilo in questa ennesima galleria che — appena iniziata — comincia anche lei a scendere verso il basso. C'è solo la nostra macchina sulla careggiata, ai lati ci sono cartelli che indicano la distanza dall'ingresso o dall'uscita ma sono troppo stanco per mettermi a leggere, guido — semplicemente — guardando avanti.
Più scendo verso il basso più il panorama muta. Le pareti della galleria smettono di essere in cemento armato e adesso sembrano scavate nella roccia. Come se dita di un essere non umano avessero graffiato le pareti per fare questo tunnel che procede inesorabile verso il basso. Ad un certo punto la strada attraversa una specie di grotta, tutto intorno si allarga e piccoli faretti azzurri illuminano quello che ha tutta l'aria di un antro fantastico. “Avete visto?” chiedo a bassa voce, ma gli altri dormono. La strada attraversa l'antro e prosegue ancora verso il basso. Ora le luci dei neon sono sparite, guido solo con gli anabbaglianti dell'auto che illuminano la strada e il soffitto scavato nella pietra. Anche l'asfalto sembra cambiare: ora è fatto di un materiale compatto, indefinito.
Poi dal soffitto iniziano a cadere di tanto in tanto grosse gocce d'acqua. I muri lungo la strada adesso mandano come un bagliore verde, innaturale. Sulle pareti vedo incisioni, bassorilievi. Più andiamo verso il basso più emergono dalla terra quelle che inizialmente mi sembrano rocce ma poi capisco essere ossa di un corpo gigantesco, millenario. Le dita hanno ancora anelli infilati, capelli grigi accompagnano l'andamento del teschio in lontananza: è un enorme soldato colosso, un barbaro rimasto schiacciato dal continente. Un proto longobardo, germanico o qualche altra etnia romanizzata. La Citroen Nemo è circondata ora da un'aria ghiaccia, ogni tanto devo mettere i tergicristalli per fare saltare la brina che si crea sul vetro. La strada passa in mezzo alle coste del corpo e poi risale — finalmente — passando a fianco della mandibola, oltre il tappeto secco dei capelli morti.
Cambio marcia perché la strada adesso è una salita decisa, butto un occhio ai bassorilievi mentre guido e intravedo scene di battaglie, genti con il segno del Cristo che ammazzano altri con il medesimo segno, contadini zappare nei campi e attorno a loro il nulla stradale, arabeschi islamici vandalizzati da incisioni e graffiti con il logo del Mac Donald, masse di popoli che lasciano case, terra, preghiere e si muovono a forza verso altre parti della terra, e poi parole, caratteri, font di lingue diverse, incompatibili le une con le altre e frammenti di storie, che non riesco a capire, leggende, storie, lettere d'amore e di guerra, volti che rimbalzano in un labirinto occidentale. Tutto mi scorre vicino e io vado avanti senza fermarmi finché all'improvviso scompare, torna il cemento armato, l'intonaco che copre la galleria, la luce inespressiva nei neon e le indicazioni rassicuranti con le loro frecce, gli omini che corrono, simboli del fuoco, divieti autostradali.
Alla fine esco fuori e non vedo le stelle. Il cielo è coperto dalle nuvole o forse la luce dei lampioni qua è troppo forte per farmele vedere. Elettra — d'improvviso — si riscuote, apre gli occhi. “Va tutto bene?” mi chiede stirandosi e cercando di cambiare posizione. Io le dico tutto alla grande, amore, alla grande.