[bada-boom #ò]

Il meccanico di Jorpeland dice che il rumore che fa la mia auto non è un bel rumore. Non è un bel segno, dice. Dice che deve smontarlo ma è quasi sicuro che si sia rotto il turbo. Dal rumore dice che non ci saranno buone notizie. Dice che possiamo andare, mentre aspettiamo, in un isola che c'è vicino a Jorpeland, ci si può andare a piedi, fare passeggiate, vedere la natura. Lui ci consiglia di andare mentre smonta la macchina così possiamo smettere di pensare all'auto. È meglio che smettiate di pensare all'auto dice, guardare la natura, rilassarvi, dice. È molto meglio.

Noi ci allontaniamo dalla nostra Citroen Nemo come ci si allontana da una tomba di un caro, ci voltiamo a guardarla e non parliamo, non facciamo ancora progetti su come gestire questo casino, aspettiamo che il meccanico ci dica qualcosa e intanto andiamo a cercare l'isola di cui ci ha parlato.

La cosa che mi colpisce di Jorpeland è che queste piccole città norvegesi non hanno un centro, sono così abituato ad avere da qualche parte una chiesa e poi intorno delle case riunite in un incastro scoordinato che poi via via digrada in zone sempre più regolari e infine in asettiche zone residenziali che lì mi sento perso. Non c'è un centro vero e proprio, è come se la città fosse emersa dalla terra il giorno prima, con le sue case residenziali, i centri commerciali, le scuole, ma non troviamo i nodi interni all'albero cittadino, tutto sembra sullo stesso livello, giriamo di strada in strada senza riuscire a percepire la parte vecchia e quella nuova. È come se ci trovassimo in una città ricorsiva dove le case si succedono alle case e poi – all'improvviso – la città finisce. L'uniformità dà un senso di smarrimento, sento proprio la mancanza fisica della storia.

Probabilmente, mi dice Elettra, non esiste una città vecchia. “Qua era tutto di legno” aggiunge. Le chiese erano di legno, le case erano di legno. Questo era un grosso villaggio che si è ritrovato città, all'improvviso, con l'arrivo del mondo contemporaneo. Forse quello che c'era prima è bruciato durante l'occupazione nazista.

Primogenito cerca intanto l'isola con Google Maps, noi lo seguiamo camminando e guardandoci attorno finché non ci ritroviamo all'interno di un cantiere in costruzione. Primogenito continua a camminare convinto tra i calcinacci, io sono affascinato e spaventato di come i miei figli abbiano fiducia negli algoritmi e nella scienza. Primogenito cammina tra i calcinacci e tra i cancelli di metallo del cantiere mentre tutto intorno gli urla che siamo nel posto sbagliato, tranne il suo cellulare. Lo smartphone continua a ricevere dati e a descrivere percorsi che l'algoritmo costruisce cieco attorno a noi. “Siamo nel posto sbagliato” gli dico e lui si volta e mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Fa gli occhi grossi, mi indica le mappe vettoriali di Maps. Proseguiamo con piena fiducia in Google finché la nostra strada non è interrotta da una babele di tondini di metallo arrugginito. Primogenito è là, davanti a tutti, che fissa l'orizzonte oltre i tondini, come il famoso quadro dell'uomo sugli scogli e davanti a lui l'oceano.

Torniamo indietro.

Continuiamo a seguire percorsi, ognuno guarda il suo smartphone e confronta le proprie mappe con quelle degli altri, come se davvero potessero essere diverse, ci ritroviamo di nuovo in una zona che urla “andatevene, folli, non è questo il posto che cercate!”, grossi palazzoni, uffici grigi, desolate zone parcheggio a delimitare ipermercati. “Eppure deve essere qua” dice ancora primogenito, anche Elettra è con lui che discute, girano, camminano e poi – improvvisamente – dietro all'ennesimo palazzone anonimo, c'è un piccolo ponte pedonale colorato di rosso e – attaccato al ponte – un'isola, come se fosse un enorme pesce verdeggiante preso all'amo. È letteralmente un ponte in mezzo al niente, nessun cartello turistico, niente. Si passa da una zona che in Europa del sud avrei definito “periferia suburbana” a questa isola piena di alberi a cui arriviamo dopo aver attraversato il ponte.

L'isola è un posto fuori dal mondo. Appena entriamo siamo circondati da decine e decine di capre che passeggiano libere, mangiano l'erba, cagano i loro piccoli pallini su un percorso che fa l'intera circumnavigazione dell'isola. C'è un parco giochi costruito nel verde, panchine, diverse piccole casette di legno con tutto pronto per farsi il barbecue la sera, un bagno pubblico, un percorso per giocare a golf, ma con il frisbee. Tutto aperto, gratuito. E c'è la gente che passeggia, fa jogging, prepara la brace per cenare assieme con altre famiglie. È un posto che trasuda civiltà e mi fa sentire in imbarazzo. Penso che se ci fosse un isola del genere in Italia nel giro di due giorni le capre sarebbero sparite, i bagni sfondati e lucchettati dall'amministrazione pubblica per dimenticarli, le zone barbecue usate come bagno e vandalizzate, gli attrezzi per il golf con il frisbee divelti e gettati in acqua. Cammino per l'isola e mi sembra di essere in un futuro distopico, in una specie di fiction.

Mi sento anche in colpa di pensare quelle cose, quello che penso dell'Italia è uno stereotipo, ma lo sento terribilmente vero. Qualche settimana dopo sarò tornato a Genova, nella strada che porta a casa mia e vedrò i rifiuti che la gente scarica da anni abusivamente nella strada sopra la mia, spinti dalle piogge fino alla strada sottostante e camminerò tra rottami, sporcizia, relitti. Scarti. Mi ricorderò di quell'isola, di quel modo di vedere il mondo. Chissà mi chiedo quanta energia servirebbe per trasformare anche il posto in cui vivo in un posto che trasuda civiltà. Sospiro. Suona il cellulare.

È il meccanico ma per telefono ho difficoltà a capire. Chiamo primogenito che ha un inglese infinitamente migliore del mio, gli chiedo se può farmi da traduttore. Primogenito non è felice di usare il suo inglese, di cui si compiace tanto, per cose rozze e meschine come parlare di motori di auto. Ma capisce la situazione e inizia a parlare con il meccanico, e di tanto in tanto ci traduce il vaticinio. Primogenito dice che il meccanico dice che aveva ragione. Primogenito dice che il meccanico dice che è il turbo. È certamente il turbo. Primogenito dice che il meccanico dice che non è una bella notizia, ma nemmeno la peggiore. Si può sostituire, è caro, ci dice. Annuisco, guardo Elettra. Primogenito dice che il meccanico dice ora gli dice la cifra. Primogenito ci dice la cifra. Scopriremo poi che per un errore di traduzione primogenito aveva aggiunto uno zero in fondo al preventivo e ci viene un infarto. Elettra chiede quanto costerebbe bruciarla invece o farla brillare. Primogenito evita di tradurre e richiede la cifra per sicurezza e questa volta ci dice l'importo esatto. Sospiriamo, tutti, anche terzogenita. Diciamo a primogenito di dire al meccanico che ci pensiamo un attimo e poi gli ritelefoniamo. Primogenito dice anche un po' di frasi in inglese, per sicurezza, poi butta giù.

Nel 1969, Elizabeth Kübler-Ross ha descritto cinque fasi popolari del dolore, comunemente denominate diniego, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione, pare dopo aver fuso il motore del suo diesel in un piccolo paese del sud della Norvegia.