[bada-boom #x]
A Kassel arriviamo alla mattina. Documenta, la mostra d'arte è distribuita, in varie parti della città, un po' come una cuccia diffusa per cani. Appena riesco ad entrare in uno degli edifici capisco di aver sbagliato tutto. Cammino e mi rendo conto che non c'è niente di eclatante, non ci sono opere che mi sbalordiscono, ma è pieno di cose. A centinaia. Abbiamo previsto tre o quattro ore di visita alla mostra, ma quando sono dentro capisco che dovrei starci dei giorni, da solo, girando e cercando informazioni. Una persona su Facebook mi dirà poi che a Kassel troverò più artigianato che arte, ma in quel momento non me ne frega niente. Mi sento come quando, negli anni ottanta, andavo quattordicenne da Genova a Milano per lo SMAU, la fiera dell'elettronica e dell'informatica, e giravo frenetico per i padiglioni a cercare gli home e i microcomputer che stavano assaltando l'occidente con la novità del loro linguaggio. Sono sempre lo stesso ragazzino, vecchio, che gira e guarda tutto con uno sguardo disposto a farsi affascinare, solo che questa volta non dalla tecnologia: sono davanti a cose che nascono per non servire a niente.
Cammino e mi ritrovo in sale buie dove vedo proiettati dei ragazzi orientali, seduti a terra, che fanno qualcosa che non capisco, per lunghissimo tempo, video dove neonati occidentali gattonano all'interno di stanze chiuse, televisioni di cartone, a decine, disegnate a mano con l'immagine di Fidel Castro, elaboratissimi meccanismi in legno e metallo che non fanno nulla, ricostruzioni di cinema africani che mandano i blockbuster girati in Africa, negozi che espongono vasetti di Nutella di marmo bianco, banane Chichita in bronzo, frutta immangiabile che morfizza in arma, torri trasparenti, maschere con i volti stilizzati di desaparecidos, manifesti di rivolta e antagonismo scritti con caratteri che non posso nemmeno leggere, chiese cattoliche piene di cadaveri vodoo, stamperie, gente che scolpisce scritte con i chiodi su carcasse animali, mia figlia su uno skate all'interno di una pista, zone per disegnare, scritte sui muri, simboli, cartelli che volteggiano nell'aria, idee. Centinaia di idee e ognuna potrebbe prenderti e catturarti.
Non mi sento in un posto in esposizione, mi sembra invece di essere all'interno di un enorme laboratorio aperto, in cui sei quasi spinto a partecipare, a informarti, a fare anche tu qualche cosa. E con un forte messaggio politico, sociale. Siamo tutte queste parti di mondo non occidentale, questi frammenti di tradizioni, storie, civiltà diverse, le une sovrapposte alle altre, cancellando e nascondendo. E siamo il mondo, la terra concreta, l'energia dell'acqua e del vento, la massa di aria che ci avvolge, sottilissima. Penso che abbiano ragione tutti e due i gruppi dei miei amici, questa mostra è una merda ed è bellissima. Ogni tanto vedo Elettra che gira, uno dei miei figli che osserva le cose e non dice niente. Capisco che questa cosa che sento, questo entusiasmo irrazionale è incomunicabile. Sono affascinato dal fatto che un posto del genere esista, che attiri persone, che crei connessioni per il mondo.
E io sono lì, ci sono sempre stato. Questo interesse per la cosa che non gira, per l'esclusione, per la stranezza, per l'inconsueto fa parte di me. Non è uno standard che posso applicare a chi amo, alle persone con cui parlo. La letteratura, l'arte, la comunicazione sono da qualche parte dentro di noi. Sono nel nostro dna, o non ci sono. Sono legami simbolici che possiamo curare, far riconoscere a chi ci circonda, fare emergere o nascondere, ma sono parti animali di quello che siamo. Non si tratta di intelligenza o di un dono, è più uno scatto muscolare che prende atto. Una fame chimica che arriva o non arriva. La bellezza è la presenza di una forma nello spazio, quello spazio e solo per noi. Poi segue lo studio, la formalizzazione, le ore passate all'Università a guardare le diapositive delle nature morte, la frutta, le formiche, i violini e le viole abbandonate, gli uccelli uccisi e appesi ai ganci davanti a me. Ma se ero lì era perché qualcosa dentro di me rispondeva, un muscolo.
La prima volta era successo al liceo Classico, il professore di Arte, non so bene perché, ci aveva portato in un'aula a vedere un film, in bianco e nero. Il professore d'Arte quando spiegava guardava sempre nel vuoto: uno dei due occhi non funzionava più, era sbrincio. Gli studenti lo sfottevano, di nascosto, vedendo che nel viso, dalla parte dell'occhio cieco, si vedevano i peli della rasatura sbagliata. È l'unica cosa che ricordo di tutte le sue lezioni di arte, la barba tagliata male e quella mattinata passata a vedere un film in bianco e nero. Entriamo nell'aula, lui fa partire il film. Il film, scoprirò poi, è “La dolce vita” di Fellini. Man mano che il film andava avanti io restavo a fissare lo schermo. Le immagini, le inquadrature, tutto mi entrava dentro e io restavo immobile, rapito, completamente rapito. Nell'aula vecchai, con le tende strappate, le sedie inadatte a stare seduti, io ero entrato dentro lo schermo. Ogni tanto mi voltavo per vedere i miei compagni e nessuno stava guardando il film, non come lo stavo guardando io. Chiacchieravano, guardavano fuori dalla finestra, si facevano scherzi, cazzeggiavano. Io tornavo dentro Fellini, quei bianchi e neri assoluti. Alla fine il professore spegne tutto, ci dice che dobbiamo tornare in classe e io mi alzo, come se mi fossi svegliato da un sogno profondissimo. Non torno in classe, vado da lui che sta ancora armeggiando per spegnere il proiettore e gli dico qualcosa del tipo, professore, ma questa cosa è bellissima. Ricordo ancora che lui si è tirato indietro, ha preso spazio per quello che gli stavo dicendo. Questa cosa è bellissima. Ha sorriso, mi ha detto qualcosa che non ricordo. È in quel momento che ho capito che tutte quelle due ore di cineforum erano servite forse solo a me, probabilmente solo a me. Che ogni tanto certe cose succedono per andare a toccare un muscolo, una resistenza mentale, una piccola parte umida dentro una singola persona, e che è uno sforzo immane quello della letteratura, dell'arte, del cinema, dei videogiochi. Della scuola.
Così, ora a Kassel mi sento protetto, ma anche un traditore. Ogni volta che lascio un padiglione, di corsa quasi per passare a quello successivo e vedere più cose possibile prima di andarmene, provo un senso di colpa e di paura. Come se stessi passando da turista all'interno di un mostro che in quel momento è vivo, con le sue viscere che pulsano, le sue contraddizioni, le sue poveracciate, ma che poi non ci sarà più. Sono un Achab dentro questo corpo e più avanzo più lo sto perdendo. Più passano le ore, più vengo espulso fuori, verso il resto del viaggio. E penso che anche questo sentimento di vuoto e di perdita devo conservarlo con cura, portarmelo dietro.
È dentro quel budello che penso alla cittadinanza. La mia generazione non è determinata dall'età, la mia patria non ha niente a che vedere con il luogo di nascita. Dentro a quell'organo animale, a Kassel, sono circondato da gente della mia generazione, esseri simili a me. Ragazzini tatuati, donne dai capelli grigi, gli occhiali delicati e lo sguardo acceso. Quella cuccia diffusa è un pezzo della mia patria, come si è andata formando per decenni, prendendo i pezzi per il mondo. La tradizione è lì, in quel continuo spostare le cose per distruggerla. Benvenuti in Europa, penso, mentre la bestia, il continente, si immerge nelle profondità della storia.
Poi – ecco – vedo uno dei figli grandi, gli chiedo, che ne pensi, ti piace? Quello alza le spalle, dice boh. Alzo le spalle anche io. Boh.