[bada-boom #x0]
Il meccanico ci dice che il pezzo del turbo non ce l'ha, ma gli arriverà, l'ha ordinato e gli arriverà, domani. O dopodomani, dice. Il meccanico siede davanti a una scrivania con un monitor enorme, semicircolare, che la occupa tutta. Il meccanico è empatico, mentre ci dice le cose soffre, si vede. Gli spiace che il turbo della nostra macchina si sia rotto. Gli spiace che vada cambiato e che costi così tanto. Gli spiace che ci siano da aspettare due giorni e che dobbiamo cercare da dormire. Gli spiace, si vede. Quando gli dico che non abbiamo ancora trovato un posto per la notte, chiama sua moglie, guarda se potrebbe ospitarci a casa sua. Quando gli chiedo se hanno un auto di cortesia mi dice che in quel momento non la hanno, ma gli spiace di non averla, mi offre la sua auto, basta che gliela riporto per tornare a casa, dalla sua famiglia. Nei giorni che verranno confesserà che avrà pensato a noi tutto il fine settimana, che non avrà dormito di notte pensando a noi, al pezzo del nostro turbo.
Quando capiamo che dovremo dormire almeno una notte in più a Jorpeland ci viene questa idea. Mentre passeggiamo nell'isola delle capre vediamo un cartello in cui ci sono scritte le regole per poter stare nell'isola e una delle prime regole dice che il campeggio è permesso, per legge. “Elettra — dico — abbiamo una tenda, abbiamo qualche sacco a pelo, siamo stati tutti scout, perché non dormiamo una notte nell'isola?”. Ci sono le casette per mangiare alla griglia, c'è un bagno, acqua potabile, potemmo passare una notte lì. L'idea piace. Terzogenita è entusiasta e anche gli altri geniti accettano la cosa con una leggerezza inaspettata. Mentre organizziamo e pensiamo quali pezzi dovremmo comprare per la notte, faccio ancora un giro dell'isola per scegliere il posto migliore per mettere la tenda e durante la circumnavigazione terrestre dell'isola mi rendo conto che c'è qualcosa che non va.
Ritorno nel gruppo che – mi fa sempre impressione – per tre quinti è carne uscita da me e Elettra.
“Ragazzi — dico — c'è una cosa che non mi convince”. Elettra si volta verso di me, mi guarda. “Cosa?” chiede. Io alzo le spalle, mi giro e indico l'isola. “Non ci sono tende. In tutta l'isola. Siamo a due passi dal Preikestolen che ieri era pieno di turisti in coda, siamo in un isola da sogno, gli appartamenti sono tutti presi e qua non c'è nemmeno una tenda” spiego. Elettra dopo averci pensato un attimo dice che in effetti è strano. Magari abbiamo tradotto male il cartello con le regole. Torniamo tutti a leggerlo, lo ritraduciamo — cioè — lo ritraduce Google, e continua a venire fuori che per legge è permesso fare camping. Ma nessuno lo sta facendo. “Sarebbe intelligente chiedere conferma all'ufficio turistico” dice Elettra e io dico buona idea e mi volto verso primogenito, anche Elettra si volta verso primogenito, così anche secondogenito e terzogenito.
Primogenito fa come un passo indietro, dice no, io non ci vado. “Sei quello con l'inglese migliore” dico io, per captatio benevolentiae, ma primogenito non ha fatto la Divina Commedia, dice col cavolo. Segue animata discussione che si conclude con primogenito che entra nell'ufficio turistico mentre il resto dei Venerandi aspetta fuori. Dal vetro lo vediamo parlottante, agitare la mano con eleganza, mi immagino il tono che usa quando parla inglese, vedo dei gesti rapidi e netti della donna che sta dall'altra parte del bancone, poi primogenito esce e ci raggiunge. “Allora?” chiede Elettra. Primogenito ha una specie di sorriso strano sulla faccia.
“Allora” inizia, e fa una pausa. “Se vogliamo andare nell'isola e mettere una tenda, possiamo farlo, per legge possiamo farlo”. “Bene” dico io. Primogenito alza una mano come a fermarmi, per farmi capire che non ha finito di parlare. “Possiamo farlo — prosegue — ma lei ce lo sconsiglia, caldamente. Sottolineo il «caldamente»”.
“Ah” faccio io. “E perché?” chiedo.
Primogenito chiude gli occhi, fa di nuovo il sorriso strano e dice che la ragazza gli ha spiegato che se noi mettessimo la tenda nell'isola andremmo contro le regole non scritte della comunità. Che la legge ci permette di mettere la tenda, ma quell'isola è molto amata dagli abitanti di Jorpeland, è qualcosa che fa parte della comunità, della parte sacra che tiene unita una comunità come quella e se noi piantassimo una tenda e dormissimo sull'isola, ecco, gli abitanti di Jorpeland la prenderebbero come un'offesa. La riterrebbero una cosa davvero davvero inappropriata.
Rimaniamo tutti in silenzio. Mentre siamo lì che pensiamo mi vengono in mente, non so perché, diversi film dell'orrore che mi ha fatto vedere negli anni secondogenito nei quali alcuni stranieri arrivano in piccole comunità rurali, e infrangono senza saperlo qualche regola non scritta della comunità e in genere i film finiscono male, di notte, con gli stranieri che vengono chiusi in gabbie antropomorfe e bruciati, divorati da uomini lupo, sacrificati a qualche sconosciuta divinità nordica. E mentre sono lì a ricordare questi lungometraggi horror non posso non immaginarmi i venerandi che piantano la loro tenda, bruciano la loro carne sfrigolante nel barbecue, vanno a dormire e — nel cuore della notte — gli abitanti di Jorpeland aprono gli occhi, li vedete?, si alzano lentamente e vanno nelle loro enormi cucine, prendono dei coltelli da taglio osso e escono di casa, si incontrano tutti per strada, nel silenzio della notte, tutti in pigiama, in accappatoio, in vestaglia, in tuta, tutti con il loro coltello da cucina e tutti diretti verso l'isola delle capre per fare giustizia, per punire chi ha osato piantare una tenda nella loro isola sacra. I venerandi.
Il mio sguardo incrocia quello di Elettra che non so se ha pensato le stesse cose ma dice quello che sto pensando io. “Meglio soprassedere” dice e io annuisco. “Ma gli hai anche chiesto se allora ti dice un posto dove possiamo andare in tenda?” chiedo a primogenito che annuisce. “«Dappertutto» mi ha risposto” spiega primogenito. “Dappertutto” ripeto io. “Dappertutto” conferma lui. “Ma dappertutto non è un posto. È un avverbio” protesto. Primogenito alza le spalle. Tanto lui fa matematica. “Dappertutto nella natura, ha detto” precisa meglio. “Dappertutto nella natura” ripeto io e mi giro verso secondogenito. Secondogenito, sempre molto preciso, dice che quell'informazione è deficitaria di una definizione di “natura”. Cosa è la natura? “Dobbiamo definire cosa è natura e cosa no, per sapere se possiamo piantarci una tenda” dice. Primogenito aggiunge: “dobbiamo definire cosa è natura in Norvegia: non è detto che il concetto sia universale”. Interviene anche terzogenita: “cerchiamo su internet”.
Scopriamo su internet che il concetto di natura e di campeggio in Norvegia è formalizzato da una legge norvegese del 1957: tutti possono avere libero accesso nella natura, anche nella proprietà privata altrui. In una proprietà privata però solo per due giorni. Poi devi chiedere permesso al proprietario. Bisogna anche stare attenti che la tenda sia almeno a 150 metri da una abitazione. Finito di leggere restiamo di nuovo in silenzio e io mi vedo di nuovo a piantare una tenda in proprietà privata per due giorni e poi mani che di notte mi prendono e mi conducono su una grossa pira sacrificale. “Non me la sento” ammetto e sento un sospiro di sollievo da parte un po' di tutti.
Così troviamo un posto per dormire normale, un po' lontano dall'officina. È una specie di tenda piantata in un bosco, solo che dentro la tenda ci sono dei letti, una stufetta, una cassa bluetooth, delle luci di atmosfera. È un posto carino e ci porto la mia famiglia andando con l'auto con il turbo rotto, che – facendo il suo wiiiiii terrificante – riesce a muoversi a trenta chilometri orari, con l'acceleratore a tavoletta. Resto con loro fino a tardi e poi vado a dormire in auto, devo svegliarmi all'alba.
Alla mattina alle sette, infatti, riporto l'auto dal meccanico. Lui mi saluta, prende le chiavi, è dispiaciuto che io abbia dormito così poco ma dice che gli è arrivato il turbo, che ora lo montano, sono tre ore di lavoro, alle dieci – massimo undici – la nostra auto sarà pronta. Potremo ripartire e seguire i piani con due soli giorni di ritardo, lasciare mio figlio a Stoccolma, andare a chiudere il conto bancario in Svezia. La nostra missione è ancora attiva, ha solo avuto un piccolo ritardo.
Mentre aspetto che il meccanico mi chiami per dire che l'auto è pronta vado nell'isola delle capre. Il resto della città ancora dorme, come la mia famiglia che ho lasciato in questo paesino a nord di Jorpeland. Tutti dormono e io vado nell'isola delle capre, mi cerco uno scoglio e cerco di godermi il silenzio del primo mattino, lo sciabordare lento dell'acqua, il rumore dei primi uomini e prime donne che approdano all'isola per fare jogging, gli uccelli che si gettano in acqua e poi escono e si gettano in cielo. E io lì sullo scoglio con il mio ebook reader leggo e mi sembra di essere in un sogno, in una realtà irreale. Sento il tempo che mi passa attorno come una massa d'aria, come una articolazione delle luci e della carne. Mi godo il fatto di esserci, di essere ancora lì vivo, di avere avuto attorno Elettra, i miei figli, in un momento di crisi e di difficoltà, di essere stati un impasto, ancora, una cosa poligenerata. Di avere superato anche quella piccola avversità.
È in quel momento che il cellulare suona, e non sono le dieci, non sono nemmeno le undici, sono le otto e mezza e il cellulare suona, e io guardo il numero ed è il meccanico, riconosco il numero del meccanico e dico cazzo, non ho ancora tirato su e dico cazzo, perché il motore non può essere già pronto, perché se mi chiama ora vuol dire che qualcosa è andato storto e io rispondo e sento una voce in inglese che mi saluta, mi dice che è il meccanico, mi dice che soffre, che gli spiace, dice solo due parole che capisco bene “bad news”, I have bad news dice e io mi siedo e ora non c'è più l'isola non c'è più la massa d'aria, non c'è più il tempo e l'impasto, ci sono solo io e la voce del meccanico che dice bad news e poi aggiunge altre cose e io mi metto una mano fra i capelli.