[bada-boom #y]

La missione che abbiamo, partendo da Genova, non è però visitare Kassel. Documenta è solo una tappa del percorso. La missione reale è quella di lasciare primogenito in Svezia, per il suo anno di Erasmus, visitare il Lysefjord in Norvegia, possibilmente salendo fino al famoso Preikestolen, un precipizio, e – infine – passare per Älmhult, la patria dell'Ikea, per chiudere un conto bancario che Elettra aveva aperto quando insegnava alla scuola internazionale svedese. Per fare queste cose io e Elettra abbiamo programmato un percorso serrato a tappe, che comprende anche Oslo, per mostrare ai nostri figli le statue di Vigeland che io e lei avevamo visto quando eravamo seriamente innamorati, voglio dire, di quel tipo di innamoramento che fa girare il cielo e precipitare in un mondo di roba liquida fosforescente. Quando non eravamo ancora né padri né madri e giravamo la Scandinavia come due pezzi di un corpo, due ragazzi con l'Interrail in mano. Mille anni fa.

Fa senso pensare che giravo con Elettra per la Scandinavia e non c'erano i miei figli, le torri gemelle erano ancora in piedi, niente internet di massa, la Jugoslavia era in tutte le cartine geografiche, appena infuocata, la Apple puntava forte sulle linee Quadra e Performa, Berlusconi aveva da poco fatto la sua discesa in campo, Occhetto lucidava la sua gioiosa macchina da guerra, e io ero già lì innamorato a vedere le statue a Oslo, leggendo le sceneggiature di Bergman e andando a visitare i posti dove Strindberg aveva scritto i suoi romanzi ed ero un ragazzino cretino come adesso, vicino a Elettra che mi guardava e non so cosa vedesse, non lo so nemmeno adesso. Mille anni fa, girano in fretta. Chissà, mi chiedo, che effetto mi farà rivedere quelle statue a decenni di distanza con i miei tre figli? Ci saranno ancora? Ogni tanto mi chiedo anche: ma c'erano già state davvero? È passato così tanto tempo che potrei essermi immaginato tutto.

In auto ci facciamo tirate da dieci, dodici ore di seguito. I figli, dietro, dormono, tappano, guardano fuori dal finestrino, ascoltano la musica, la voce di Zeno Cosini che racconta la sua vita. Man mano che prosegue il racconto di Svevo io confesso ai figli, vedete, Zeno sono io. Quando sento La coscienza di Zeno sono come quel personaggio di Tre uomini in barca, quello che legge i libri di medicina e più li legge più capisce di avere tutte le malattie del mondo. Io uguale con Zeno: più quello racconta, più capisco che parla di me, confessa i miei difetti, i miei modi di mentirmi, di sopravvivere. La coscienza di Zeno non è un grande classico della narrativa perché scava all'interno dell'uomo moderno, o perché scoperchia i processi psicanalitici, ma perché Svevo parla di me, in maniera palese. Spiego la cosa ai ragazzi mentre guido, la malattia di Zeno, i suoi dolori, sono tutti i miei.

La sera, dopo questa confessione, succede questa cosa. Guido fino alla casa che abbiamo prenotato, arriviamo alla sera, conosciamo il nostro ospite che ci saluta e ci spiega come entrare in questo piccolo appartamento, grazioso, costruito sopra un garage nel mezzo di un bosco. Posteggio, tutti scendono dall'auto, io spengo l'auto, metto il freno a mano, apro la portiera, metto fuori le gambe, faccio lo sforzo per alzarmi e parte un dolore, enorme, profondo. La schiena manda una fitta precisa, assoluta e io ripiombo dentro l'auto. Uso le mani, mi aggrappo al volante, riesco a mettermi in piedi e cerco di capire cosa cazzo mi è successo. Non dico niente a Elettra, inizialmente, voglio prima capire cosa ho.

Dopo un po' di tentativi, di analisi e di test di movimento capisco che quello che ho è che sono vecchio. Sono un adolescente, certo, ma vecchio. E la schiena mi sta mandando delle fitte atroci, non riesco nemmeno a slacciarmi le scarpe. Confesso dopo un po' la cosa a Elettra e anche lei cerca di capire cosa possa essere e dopo un po' capisce che il male che ho è che sono vecchio. Per fortuna Elettra ha portato con sé, oltre ai suoi medicinali salvavita, anche dell'Oki, un antinfiammatorio. Così mi siedo sul letto soffrendo come un cane e mi sento Zeno Cosini con il suo male alla gamba, identico, vedete figli, dico, anche io come Zeno ho una malattia. Si chiama corpo. Bevo il mio antinfiammatorio e provo, inutilmente a sdraiarmi e penso che adesso dovranno portarmi in ospedale, che potrò solo che peggiorare, che con il mio stupido essere malato rovinerò la vacanza di tutta la famiglia.

La colpa non è mia, ma di Svevo. Delle venti ore di audiolibro di Svevo. Evidentemente la sua malattia dell'anima è contagiosa. Passa. Dalla sua gamba è passata alla mia schiena, penso, sdraiato a fissare il soffitto obliquo del sottotetto. La mia figura distorta di padre di famiglia, di uomo alfa ha chiamato in soccorso subito il male, la malattia, per tornare a essere rapidamente un preadolescente, una persona non sufficiente, che ha bisogno di essere curata, accudita, che necessità di continue attenzioni. Ecco. Il latte, l'Oki, le copertine sulle spalle, il bacio della buona notte.

Casco male, ogni figlio pensa ai fatti suoi, cercano la rete, mettono le cose in carica, non si accorgono nemmeno che ogni tanto tento di rimettermi seduto e non ci riesco e mi ribalto indietro contro il materasso. Porca puttana, penso anche. Torno a fissare il soffitto. Lo tocco. Sospiro.