[bada-boom #z]

Provo a leggere. Durante queste vacanze mi sono portato solo l'ebook reader carico di romanzi. Niente libri di carta, niente portatile per scrivere, solo questo tablet a inchiostro elettronico carico di romanzi. Una decina di romanzi, classici che dovrei aver letto e che non ho mai letto. La vita è piena di romanzi che dovresti aver letto e che non hai letto, per quanto tu ti sforzi di leggere tutto, ci sarà sempre qualcuno che ti rimprovererà di non aver letto qualcosa. Ma dai, Venerandi, come è possibile che tu non abbia mai letto... segue nome di un romanzo che tu, cioè io, non ho mai letto. È pieno di libri che avrei dovuto aver letto e non ho mai letto, liste interminabili. È un po' la sberla che il padre di Zeno Cosini getta in faccia al figlio in punto di morte, il senso di colpa. E per quanto io mi metta a leggere furiosamente romanzi, sempre ce ne saranno di nuovi da leggere, è una battaglia impari.

Così, questa estate, ne ho messi una decina sul lettore e ho iniziato a snocciolarli senza pietà. Calvino, Fante, Carrere, Schnitzler, Lussu, Shiel, Moravia, Camus, Celine, Lewis, tutti questi grandi classici che avrei dovuto aver letto e che ora leggo, calma ragazzi, non vedete che li sto leggendo? Non mi state addosso, sono qua che li leggo, proprio quelli che avete detto che devo, assolutamente devo aver letto. E più li leggo più mi ci sento dentro, come se fossi caduto in un impasto.

Gia a Genova, prima della partenza mi ero svegliato, ero andato in cucina, e mentre facevo colazione avevo aperto tutta la decina di ebook che mi ero comprato per il viaggio, tutti, avevo impostato la grandezza corretta del font, i margini, avevo disattivato la sillabazione e avevo iniziato a leggerli tutti e undici, la prima mezza pagina.

E mentre ero lì che passavo da Calvino a Celine, da Moravia a Fante, venivo colpito dalla materia, dalla forma mobile della scrittura, delle parole, del suono. L'incipit è un po' come entrare in un flusso, avvicinarsi al bordo della piscina e guardare l'acqua sapendo – dentro di te – che se fai il salto poi cambia tutto, ma per ora sei ancora salvo, sei un terrestre che fissa una massa d'acqua. L'impasto era tutta la glassa, il sovrapporsi di tecniche di quegli ometti che avevano passato ore, giorni, anni a scrivere cose che potessero mentirmi, intreccio, scene, personaggi, pause, idioletti e che ora – aprendo il libro – portavano il senso di sé, del loro essersi messi lì a trascriversi, a compitare il loro modo di ingannarmi e farmi perdere tempo. Sentire – da lontano – la consistenza della loro lingua, quella che leccava e si muoveva nella loro testa.

Era la sensazione strana di trovarmi davanti a codici, a declinazioni di quella tecnologia nata per tenere conto del bestiame e delle anfore d'olio, che ora veniva distorta per raccontare cose inesistenti che permangono nel tempo. Una tecnica inventata per memorizzare cose reali, dati, usata ora per descrivere l'irreale e il fiabesco. La narrativa è un allungamento deforme delle fiabe delle buona notte, una versione per lenire, anche per gli adulti gli orrori del giorno. Così come la musica popolare, gli incastri della trap come gli accordi base del rock, altro non sono che una versione portatile – negli anni – delle ninne nanne, i jingle con cui le femmine del pianeta ci hanno rassicurato nel momento di chiudere gli occhi, così fragili, nel buio. Quelle per innamorarci, quelle per danzare.

Decine di incipit come odori personali, questo ingombro dell'autore, la scheda personale, la prefazione dello scrittore contemporaneo, la seconda, la terza e la quarta di copertina, la voce che ritorna lì, nero su bianco, a raccontartela, a costiparti la testa di una leggera frenesia che si accumula, periodo dopo periodo, finché non sei saturo e dici basta, basta e chiudi tutto, salvando lo stato, per riprendere appena possibile, una volta esauriti gli altri infiniti antipasti dell'anima di cui siamo circondati.

E ora – con la schiena a pezzi – con le parole di Svevo ancora nelle orecchie, mi muovevo all'interno di quei fragili labirinti narrativi. Fragili, la scrittura è di una fragilità disarmante. Richiede uno sforzo da parte di chi legge, andare avanti, riga dopo riga, parola dopo parola, staccarsi da tutto quello che si ha attorno. Trovavo dei pezzi, li sottolineavo, cercando di mangiare, di fare cannibalismo di questi autori invisibili, essere anche io un po' Fante, un po' Carrere, un po' Celine. Divorare questa spiaggia allucinante, con il sole che annienta ogni cosa e in piedi ci sono io con la pistola in tasca, me la sento fra le dita, lucida e dura e cammino verso quell'arabo per terra, l'acqua dietro di lui. Le arance che ho messo sotto al letto, ne ho divorate e decine e ora ho la pancia gonfia, mi viene da vomitare mentre fisso il prato verde, appena fuori dalla finestra aperta del mio appartamento. Tutto mangio, divoro, cambio forma ogni secondo.

Leggere è una metamorfosi, una droga. Un side effect della comunicazione inaspettato e provvidenziale. E poi succede questa cosa, che alcune cose che aveva iniziato a dirmi Svevo, finisce di dirmele Celine. Mettono tasselli a una terza narrazione che non è più quella di Svevo né quella di Celine. È la mia, è interna, quando vuole salta le righe di questi morti senza nemmeno leggerle e poi si ferma e divora una frase, una parola, così, come un banchetto dove posso mangiare quello che voglio, evitare certe pietanze, tirare fuori dalla bocca i resti di un lemma e ributtarli nel piatto, così, piene di legacci e legami interni del mio corpo.

A un certo punto penso che nella mia testa è una tempesta di copia e incolla dei diversi romanzi, sberle di queste storie e prese come una sola, vedo entrare il Bandini di Fante nella provincia francese di Celine, vedo gli esseri senza tempo di Calvino che incontrano con l'ultimo uomo sulla terra di Shiel, un personaggio si sposta all'interno di una descrizione, è un centone in cui tutto questo impasto si incontra per un attimo, prima di crollare, come la mia schiena, che mentre sono lì che tento di leggere, faccio uno spostamento su di un gomito e quella manda le sue urla atroci nella carne, altro che Zeno, questo è un dolore reale. Il dolore nella vita reale fa male, davvero. Chiudo l'ebook reader, non riesco a leggere.

Alla fine la letteratura è fragile, ha molta meno forza di quello che crediamo. Basta un mal di schiena per fare tornare i segni sulla forma della pagina, per renderli degli ostacoli per occhi, dei semplici simboli messi gli uni davanti agli altri. Inutili, spenti. Quando arriva il dolore, anche quello interno, non della carne, tutta la forza della fiction decade. Ogni organo del tuo corpo inizia a pesare mille quintali, dentro di te. Ogni cosa fuori è lì immobile per ferirti. La cosa migliore è stare nel letto, coprirsi con un lenzuolo e fare la magia del prestigiatore: scomparire dall'umanità, dalla stanza, dalla famiglia. Chiudo gli occhi. Li riapro: davanti a me c'è Elettra. “Io non me la sento di ripartire domani” le dico. Lei annuisce. Pensa. “Domani vediamo di fare qualcosa per te” dice e io rispondo “occhei”. Come in un romanzo americano, occhei e sento tutto il fastidio del mondo che si gratta attorno a me, oltre lo spazio interno all'appartamento, sopra il tetto fuori nel vento nero della notte norvegese che smuove rami e terra e più in là, per l'intera circonferenza del globo, a scuotere capelli, finestre, masse immani d'acqua scura.