Che poi per me essere nerd era qualcosa che aveva a che fare con il mondo nascente dell'informatica. I ragazzini come me chiusi in camera con quell'home computer collegato a un televisore e un joystick, riviste con listati incomprensibili, libri di linguaggi di programmazione ineseguibili. Ero lì, in quel posto, e non in un altro. Non avevo mai considerato, in quegli anni, quelli che entravano a guardare Guerre Stellari come dei nerd. Quelli che guardavano Gundam, o Goldrake. Erano clienti di prodotti di massa. Non stavamo giocando la stessa partita. Oggi, nel negozio nerd, siamo tutti assieme, appiattiti in un'unica classe di consumatori. Siamo nerd, abbiamo l'etichetta.
Dovrei fare un abiura: andare da quei ragazzi e quelle ragazze e confessargli guardate, scusate: non sono più un nerd. Dirgli che quello che è lì in vendita non ha niente a che fare con le fotocopie di applesoft basic che copiavo senza sapere bene cosa fossero. Che i gadget colorati con i milioni di Mario che salta riprodotti in serie non hanno niente a che fare con le immagini bitmap di cui scrivevo gli zero e gli uno a colpi ciechi di poke. La maggioranza, ora, con un cellulare in mano a condividere foto sui social non è nerd, non lo sono le serie fiction, i muli bastonati per fare camminare un immaginario collettivo di quaranta anni fa. Tutto attorno a me è così iconico. E io non lo sono mai stato, iconico. Mi sento straniero, adesso, in quella patria nerd infinita. Forse ho smesso di essere nerd quando esserlo è diventato un marchio, un prodotto di massa. Un labirinto di specchi.
[da bada-boom, appunti per una seconda stesura]