[diario dalla cucina]
Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.
Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità? Bah.
Ieri in classe ho fatto provare sette studenti a fare una breve parte di Sei personaggi in cerca d'autore senza usare il libro, a memoria. Mi sono seduto in fondo alla classe e li ho lasciati fare. Piuttosto istruttivo. Nella loro versione, siccome lo studente che faceva il capocomico non aveva studiato la parte, il dramma termina con i personaggi che scocciati lasciano il palco e vanno a cercarsi un altro capocomico in altro teatro.
Interessante vedere come si divertissero a vedersi recitare e vedere emergere il diverso impegno e le diverse paure: lo studente che davvero si è imparato tutta la parte, abbastanza bene, e fa muovere lo spettacolo verso una conclusione spostando tutti gli altri con sé; quello che in classe fa sempre casino che – sul palco – si capisce che gli dà fastidio di non sapere la parte, ha paura di essere inadeguato e cerca strategie per essere se stesso e anche il personaggio che sta recitando; gli altri che un po' prendono in giro quelli che recitano un po' sono curiosi di seguire la storia, di vedere cosa ne verrà fuori.
Ho registrato tutto con il cellulare per rivederlo e mi sono anche reso conto che a volte è utile rivedere certe cose. La mia prima impressione era che il tutto fosse andato troppo alla carlona, mentre – rianalizzandolo con calma – ecco no, i punti in cui avevano lavorato erano più di quelli che mi erano sembrati da vivo. E a un certo punto si sente nella registrazione la mia voce, uno studente m chiede perché non ho tolto la cattedra e io gli rispondo perché sta andando a pezzi. E la mia voce è terribile, balbetto, sono incerto, ho una voce orribile.
Mi riascolto a casa e mi rendo conto che per buona parte della mia giornata io parlo senza ascoltarmi, ho una orribile voce automatica che dice cose, mi succede sempre quando mi riascolto nel mio parlare quotidiano e non controllato e quando mi succede mi innervosisco e vergogno, ho una voce mutante che non prende posizione, che si piega e si mette assieme per frammentazioni.
E mi dico come è possibile che sia la stessa voce di quello che poco prima era lì, davanti a loro a declamare Vogliamo tutto di Balestrini. Non ho la registrazione di quello, ma sono sicuro che la voce era completamente diversa. In pratica in me convivono – come in tutti – decine di venerandi diversi, ognuno con la sua voce, con il suo comportamento, e sono tutti appicicaticci e nervosi.
Questo per dire che agli studenti ho detto esattamente questa cosa, la settimana scorsa, ma non dicendo che era una mia idea, ma di Pirandello. Abbiamo poi letto un pezzo dove Pirandello effettivamente dice queste cose.
Alla fine gli ho detto di prendere un foglio, di fare un cerchio, di dividerlo in spicchi e di dirmi quante personalità erano nascoste dentro di loro. Quanti Claudia, Valerio, Fabiana, Enzo ci fossero dentro di loro e quanto spazio prendesse ognuno.
Me li hanno restituiti: beh, dentro di loro convivono allegria, simpatia assieme a ansia, insoddisfazione, senso di inadeguatezza. Quello che sono quando sono a scuola, quello che sono con gli amici, quello che sono quando sono con i genitori e quello che sono quando sono da soli. Ognuno in un proprio spicchio incomunicante. Messo nero su bianco.
Che gran casino.
Ieri poi camminavo in centro, avevo portato terzogenita a canto e camminavo pensando al pezzo che avevo letto di Vogliamo tutto, la scena dell'assemblea degli operai che dicono di volere tutto, di non volere più aiutare lo stato capitalista, di non volere più piccole concessioni, piccole riforme per farli stare abbastanza bene da aiutare i padroni a continuare a fare soldi.
E camminando nel quadrilatero genovese vedevo le insegne dei negozi, le storie appese ai muri, come tutto portasse a essere singoli, soli, unici con i propri prodotti contro al mondo. Quel senso di collettivo, di assemblea, di diritti condivisi non c'era più. Se sto male, ho pensato, non c'è nessuna società dove posso andare a piangere. Il Synlab lì, di fronte a me, mi avrebbe detto se avevo qualcosa di rotto dentro, pagando. Le storie di vita del caffè appese al muro erano lì per chi il caffé se lo pagava.
C'era energia e luce e calore emanata da ogni singola particella catastale, ma quell'energia, quella luce e quel calore avevano un costo che non era collettivo. Lo storytelling, i presidi culturali, i prodotti etnici mi portavano la loro narrazione e volevano che io e la mia carta di credito entrassimo a far parte di questa bella fiction analogica.
E così torno a casa e secondogenito è lì, con il suo sorriso ambiguo che ci aspetta, terzogenita si siede anche lei accanto a lui e io mi acciambello tra di loro; partecipiamo al rito collettivo della prima partita al nuovo Zelda, il giorno dell'uscita.
E siamo con Link a correre e saltare, unire oggetti, assieme a milioni di altri come noi, invisibili e lontani.