[ricordo]

Quindi sono alla festa di compleanno di terzogenita, in un salone di un bar vicino alla scuola, abbiamo invitate le sue compagne di classe, le gazzelle, e siccome siamo una famiglia che si sa mettere seduta e rilassarsi siamo nel mezzo del salone che chiamiamo tutte le gazzelle urlando per fare insieme dei giochi.

Il nostro dna e il nostro cammino esperienziale infatti contiene anche la capacità di organizzare giochi collettivi per bambini di cinque anni.

E le gazzelle arrivano, ridono, gli chiedo i loro nomi e mi rendo conto che sono nomi bellissimi e che non riuscirò mai a impararli in cinque minuti. Tutte le amiche di mia figlia hanno i nomi tradizionali del paese da cui sono arrivate: indiani, eritrei, romeni, pakistani. Terzogenita li ripete tutti, non ha nessun problema. Penso che sia fortunata, lei, ad avere tutta quella gente che viene da tutto il mondo ed è tutta lì, nella sua classe.

“Volete giocare?” urlo. “Sì”, dicono loro. “Non ho sentito!” grido. “SÌ” gridano. “Non ho sentito!” urlo ancora, e loro ridono come pazze, urlano di sì fortissimo, vogliono giocare, ci mancherebbe altro. E giochiamo, e poi mettiamo la musica e mi trovo a ballare con loro in cerchio, a farle girare, roteare e poi fermo la musica, giochiamo ancora a ballare attorno a sedie decrescenti, a prendere fazzoletti, a mettere code ad asini bidimensionali.

Guardo le madri sedute che mi guardano, guardo i nonni italiani che di tanto in tanto vanno avanti e indietro carichi di monete a passare il loro pomeriggio – soli – alle slot machine, passando in mezzo alla nostra piccola festa come stranieri. Li vedo che li bruciano in dieci minuti e tornano indietro a cambiare altre banconote. Penso che vivere è un gran casino. Mi appoggio contro il muro, porto il bicchiere di plastica alla bocca e faccio colare dentro qualcosa e penso che vivere è un gran casino.