Sono lì che sto andando in vespa a prendere terzogenita, guido lentamente nelle arterie principali di Genova. Supero – a fatica – lo stadio che oggi è presidiato da poliziotti in tenuta antisommossa, sembra uno spin off del g8 del 2001. I tifosi sono dappertutto attorno allo stadio, sembrano le formiche quando alzi le pietre, si muovono in branco, urlano, occupano la strada perché oggi quel pezzo di città è loro, la legge non riuscirebbe a fermarli.

Vado verso la periferia e – nella strada principale – vedo i manifesti per le prossime elezioni, una sacco di gente di centrodestra che mi sorride gentile indossando vestiti da ufficio. Mi fermo al semaforo. Sono decine e decine di manifesti con questi uomini e queste donne giganteschi con i simboli di Alleanza Nazionale, di Forza Italia, di Bucci e Toti, tutte mi sorridono enormi mentre scatta il verde e io parto.

Sopra alcuni di questi manifesti ci sono dei faretti per l'illuminazione notturna. Ora sono spenti. Li conto, sono sei faretti. Guardo la carta, la colla, lo spazio preso. Mi chiedo, in astratto, quanto impatti la pubblicità. Quanta energia venga consumata ogni giorno per convincere le persone ad acquistare un prodotto. Non a produrlo: a convincere le persone a sceglierlo.

Quanti server consumano energia per fare invii massivi di spam, per fare ricerche fuzzy e spostare i messaggi di spam nelle cartelle dell'indesiderata, quanti jpg, gif animate, stampe in quadricromia, ore e ore di brainstorming di copy, carta lucida tagliata piegata e messa nelle cassette, impilata in magazzini, luci puntate, video montati, caricati, infilati tra un video Youtube e l'altro.

Deve essere una quantità di energia enorme, un numero sproporzionato di risorse che ogni giorno vengono consumate per convincere la gente a scegliere un biscotto ai cereali, una banana bio, un candidato di Alleanza Nazionale, un detersivo sbiancante, un'automobile intelligente, l'abbonamento a qualcosa, per qualche tempo.

Rallento, scalo. Mi fermo. Vedo mia figlia, mi corre incontro. “Hai dell'acqua?” mi chiede immediatamente e senza dire altro prende la borraccia di metallo dal mio zaino e inizia a bere senza nemmeno prendere pausa per respirare. Sembra che stia suonando la tromba. Quando ha finito inspira; espira. Mi rende la borraccia. “Buttala pure via – le dico – ormai è vuota”.

Lei ride, la mette a posto, e poi dice che oggi hanno parlato proprio di quello. “Uh, di cosa?”. Lei si mette il casco e non mi guarda nemmeno. “Di come dobbiamo salvare il mondo, ecologia, cose così” mi spiega. “Ci pensate voi quindi?” chiedo mettendo il mio. “A cosa?” chiede lei. “A salvare il mondo” dico e lei fa un sorrisino, non mi risponde.

Tornando indietro sterzo, mi fermo. “Che fai?” chiede lei. “Che ne dici di andare in spiaggia a cuocerci un po' al sole?” le propongo e lei salta giù dalla moto e dopo due minuti è con i pantaloni alzati a correre nell'acqua. Osserva la linea dell'orizzonte, segue i suoi pensieri, corre. Io la guardo da distante, vedo la spiaggia, vedo i colori, le pietre, la spazzatura portata dal mare, gli altri genovesi messi qua e là.

Tutti voltati verso il sole che scende, il mare, la terra: questo prodotto che è incomunicabile, che non c'è in nessuna reclame e permane, nonostante tutto. Da quando? Miliardi di anni. Masse di acqua e terra e aria che premono verso il basso questo delirio che siamo.

Intanto terzogenita mi chiede se può buttarsi in acqua, che è tutto bellissimo.