Sto camminando di sera con terzogenita in piazza della Vittoria dove c'è un grosso arco di epoca fascista. Celebra le vittorie militari italiane. Poggia – letteralmente – su un parcheggio sotterraneo ed è circondato di parcheggi a pagamento. Di sera è illuminato di viola, e le luci creano, nella parte superiore, il nome dello sponsor che – immagino – abbia manlevato il comune dalla cifra che serve per illuminare i monumenti di Genova.

“Guarda – mi dice mia figlia – hanno scritto il nome di una ditta là sopra!”. È meravigliata. Io le spiego che – no – sono solo luci, ma non posso non pensare che quel monumento, con quella scritta là in cima, lo sponsor, abbia modificato il suo significato, la sua presenza nello spazio.

Quando lo guardo non penso al monumento fascista, alla faccia scolpita di Mussolini e poi abrasa dopo la seconda guerra mondiale. Lo guardo e penso allo sponsor.

Il delegare servizi della cittadinanza ai privati, priva i cittadini del servizio, perché quello che ottengono è qualcosa di diverso. Il comune ha la storia, il privato la trasforma in reclame.

Più tardi seguiamo i carri del funerale della sardina che all'improvviso lanciano giocattoli sulla gente ai lati della strada. Sono giocattoli di plasticaccia, cose made in Cina che vengono buttate a migliaia sulle persone che si mettono a prenderle a manciate, riempiono borse di paccottiglia.

Ma non solo per avidità. Anche per pena. Perché se non le raccogliamo i carri che seguono i primi ci vanno sopra e le distruggono. La fiumana delle persone che arriva le calpesta. Si sente rumore di plastica che va in pezzi, sono giocattoli che perdono braccia, testa.

Scoprirò più tardi che immediatamente dopo l'ultimo carro ci sono i camioncini dell'AMIU che ripuliscono la strada in tempo reale, tutti i resti spariscono nel nulla. Niente storia.

Alla fine siamo in piazza De Ferrari e partono i fuochi di artificio. Vanno in sincrono con la musica pop dei ragazzini. Terzogenita riconosce le canzoni e mi dice il titolo.

Indico i fuochi nel cielo che esplodono. “Non sono belli?” chiedo a mia figlia e lei li guarda, ci pensa e poi mi dice. “Sì, sono belli: ma saranno eco-sostenibili?” e resta a fissarmi con aria di sfida e io penso a come si formano le idee, le nuove generazioni, i nuovi linguaggi del mondo.