Terzogenita mi chiama, mi chiede se facciamo un gioco insieme, io sono stanco, davvero stanco dico, amore sei sicura? Che gioco?
Mi spiega che è un gioco che ha inventato lei, si prendono dei libri a caso, si aprono a caso, si scelgono delle parole a caso e si trascrivono. Un po' di parole per ogni libro.
E poi si mettono via i libri e bisogna scrivere una storia con le parole che sono state scelte.
Rimango così, ammirato, mentre lei va via e torna con un foglio, una matita colorata, un libro di Scooby Doo, uno scritto da sua madre su Genova, uno sulla vita dei ghepardi e uno che spiega come vivere con un cane isterico.
“Scrivi tu” mi comanda e mi dà carta e penna mentre lei prende il primo libro e inizia ad aprire le pagine a caso e mi detta le parole da scrivere.
“III Sommario lui cacciando giallo Gerody ghepardo arf...” dice lei saltando da una pagina all'altra e poi da un libro all'altro e intanto io scrivo tutto. Ogni tanto si ferma, ride tra sé e sé e poi riprende.
“Questo non posso scriverlo” mi dice ad un tratto. Guardo: è un'illustrazione: ma nella sua testa è comunque materiale che può essere scelto a caso.
Prima, a tavola, la guardavo mentre mangiava, nei suoi dieci anni, e la confrontavo con tutte le forme che aveva avuto prima, tutte le figlie che si sono succedute nel tempo, sedute davanti a me a mangiare con i loro volti mutanti. Informi, sono cambiamenti di stato che vorticano anno dopo anno e le tengo strette con un nome, un vettore della direzione che hanno preso.
Alla fine mette via i libri, prende il foglio in cui ho trascritto le parole random e si mette a scrivere una storia componendola a partire dalle parole. E ride mentre scrive, io sono lì sul divano, la sento parlottare, chiudo gli occhi e le dico che è bellissimo stare lì, seduto, ad ascoltarla.
Lei non mi sente nemmeno, è tutta presa nella sua furia creativa mentre lentamente la realtà inizia a frammentarsi, le cose si staccano, nel buio della mia testa si creano e si distruggono le figure che parlano e dicono cose che non hanno senso.
Così, vicino al suo gorgo, sprofondo con la nave carica di tutti i fabrizi che sono stato io, la mia zavorra mutante sempre più grave mentre — fuori — quella continua la sua ricerca della felicità, nella strada degli alfabeti.