Una cosa che mi ha molto aiutato a essere lo scrittore che sono, nel bene e nel male, tra le tante cose che sono sono anche uno scrittore, ci devo convivere, e uno scrittore anche che vive alla marginalità della scrittura convenzionale e rassicurante, uno scrittore che scrive male, quando può, e che scrive da dio, quando riesce, comunque, una cosa che mi ha molto aiutato a essere quello che sono quando scrivo sono due.
La prima l'ho già raccontata, è successo quando ho iniziato a scrivere in maniera costante, fine scuole elementari inizio scuola media e ho trovato questa docente delle medie che pensava che io avessi talento nella scrittura, come nei film americani non so se avete presente, però a Manesseno, una frazione che alita provincia su Bolzaneto, fate conto una strada costruita a fianco di un torrente perennemente o in piena o in secca, un po' di case, capannoni industriali, boschi.
Lì, in questa scuola marginale questa docente leggeva i miei racconti e le mie poesie e diceva che avevo talento, mi faceva sedere in cattedra e leggere i miei racconti umoristici ai miei compagni di classe, io proto-balbuziente, mi sedevo e leggevo, nella pausa che c'era tra la partenza di questa docente dalla sede centrale all'arrivo nella succursale dove stavamo noi, in pratica facevo sia letteratura che sorveglianza.
Quando decisi di fare il classico lei mi regalò un foglio con l'alfabeto greco e una sua dedica, lo tenni per decenni con me, ora non so dove sia, forse l'ho buttato in uno dei tanti cambi di casa o di personalità. Mi chiede di dedicarle il mio primo libro perché lei era sicura che io sarei diventato uno scrittore, e io effettivamente glielo dedicai, diciassette anni dopo, più o meno.
La seconda cosa che mi ha molto aiutato è stato il fatto di avere attorno amici che sono l'esatto opposto degli yes man. Le persone che conosco da più tempo, con cui parlo delle cose che scrivo, a cui di tanto in tanto provo a fare leggere le cose che faccio mentre le faccio, quando faccio queste cose, alzano gli occhi al cielo. Non rispondono ai messaggi. Dicono “bella merda” e mi restituiscono tutto.
Decenni che mi sono vicine e quando parlo di scrittura mi annegherebbero in una pentola di acqua bollente, alzano il sopracciglio, dicono vabbè Venerandi vaffanculo e cambiano discorso, per ogni cosa che faccio vanno a vedere il punto debole e lì picchiano, saggiano il vaso con l'unghia per vedere il momento della rottura. Sono perfetti no-man, da sempre. E sono poi sostanzialmente le uniche persone che frequenti.
Quindi quando scrivo qualcosa, in genere, lo faccio assolutamente senza rete. Tanto so che è inutile. Levati i bib(h)icanti che sono invece meravigliosi, ma malati. I bib(h)icanti sono malati di vita. Siamo intellettuali ingabbiati nella vita e quindi ci raccontiamo cose incredibili, avanti dieci, venti anni rispetto a tutto il resto che abbiamo attorno. Tanto sappiamo che non le realizzeremo mai. Abbiamo idee folgoranti, come nei film americani, ma senza i fondi. Ce le raccontiamo, le progettiamo, facciamo schemi.
Poi – come spettri – svaniamo nella vita. Facciamo le nostre professioni, lavoriamo, campiamo figli, case, mutui, ravvedimenti operosi. Affetti e dolori. Poi all'improvviso, in genere è sempre così, uno dice che c'è una perfomance da fare, un incontro su un tema assurdo, chessò, la rivolta iconoclasta nella canzone pop slovacca, e dobbiamo scrivere un testo, cazzo, dobbiamo assolutamente andare e noi – ogni volta – in due o tre settimane buttiamo giù tutta la performance, le voci, i tempi, le note di scena, tutto come se fosse la cosa più naturale del mondo.
E di colpo ci vediamo, erano sei mesi, un anno che non ci vedevamo, ci vediamo, ci sorridiamo, siamo tutti invecchiati, e saliamo sul palco, se c'è un palco, su un prato, nel mezzo di una chiesa sconsacrata, per strada, dentro un pub, dipende, e ci mettiamo a leggere le nostre cose, facciamo i cori, facciamo la nostra cosa così, all'improvviso e finita la cosa ci ritiriamo, commentiamo quello che abbiamo fatto, abbiamo dei bicchieri in mano, ci sentiamo degli dei scesi in terra per mezz'ora e poi torniamo a essere spettri.
Così, in genere, le cose di scrittura le faccio con persone che non conosco. Che non ho mai visto. Lavoro per mesi all'editing dei miei romanzi con persone che non ho mai incontrato, progetto installazioni di poesie elettronica, faccio corsi di letteratronica, storie a bivi per la scolastica senza mai vedere una faccia. Documenti condivisi. Mail che iniziano con R: o RE: e vanno avanti per anni, a volte.
È una corrente che mi attraversa, sterile, non avete idea di quanto sia sterile mettersi lì e scrivere, quanto tempo rubi alla vita immaginarsi delle cose in maniera costante e programmatica, che senso di vuoto e di colpa nasca dopo una serrata sessione di scrittura. Ma è una corrente, come una bolla, avete presente le bolle sottopelle, quelle che diventano poi bianche e piene di pus.
Non si assorbe nella vita la scrittura, non puoi metterci sopra della crema. Tutto quel materiale, che tu voglia o no, si accumula. Non ha suono prima che tu lo scriva. È un pus incolore e indolore che cresce e che non sai cosa sia finché alla fine – sfinito – non ti metti lì davanti allo specchio e premi, parola dopo parola, lemma dopo lemma, e vedi cosa esce fuori, te lo trovi davanti a te che si contorce e dice, sono vivo, sono qua, sono fuori, finalmente.