giacomo folli

oggi mi sento

Mi voglio solo se tu mi vuoi.

scrivere

Mi voglio solo se tu mi vuoi. Ho trovato molte varianti di questa frase in diversi film, libri, video, canzoni. E per quanto innocua e affettuosa possa sembrare, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che sia più che altro un modo per romanzare la solitudine e l'insicurezza.

Io sono sempre stato molto produttivo sul fronte creativo: ho registrato diversi album musicali, ho prodotto 2 libri di fotografia, ho partecipato a spettacoli teatrali (sono stato pure il protagonista di un musical scritto e realizzato con gli scout), ho dipinto, disegnato e ridipinto quasi ogni albero intorno a casa mia e ho scritto delle montagne di poesie e testi in prosa. Abbastanza produttivo insomma. Però ho sempre avuto un dubbio: come mai sto facendo così tanto di tutto questo? Mentre io mi perdevo in queste digressioni artistiche, i miei coetanei erano impegnati a studiare, rimanere al passo con gli esami, trovarsi un lavoretto per pagarsi le vacanze al mare, etc... Io ero così motivato a fare tutt'altro, ma da cosa?

Ieri sera sono andato a letto intrattenendo il pensiero che tutto ciò che ho fatto l'ho fatto per potermi vedere come una persona desiderabile. Forse proprio perché io ho sempre desiderato essere un'artista di successo, ho collegato questa figura al mio desiderio, pensando che se io fossi stato una artista, allora ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe desiderato essere come me. E probabilmente, il fatto che nella nostra società gli artisti/attori/cantanti sono osannati come dei, mi ha potenziato e giustificato questa mia convinzione.

In questo senso, ogni nuovo prodotto della mia creatività potrebbe essere inteso come un passo in avanti nella mia impresa per conquistare la desiderabilità. Un mi vorrò, perché voi mi vorrete!

E tutto ciò mi fa schifo. E se scavo un po' più a fondo, mi fa paura. Paura di ammettere che tutto ciò che ho realizzato è tanto un prodotto dell'impegno, quanto un prodotto della frustrazione; paura di ammettere a me stesso che le canzoni, le foto, le poesie e tutto il resto non erano prove che fossi un artista, ma erano prove che stavo cercando validazione nei complimenti degli altri. Perché ad ogni “bella quella canzone, paco” io sentivo “dai, non sei così male, alla fine qualcosa la sai fare”.


Non so cosa ci sia di vero in questi pensieri. Credo siano un lato dei meccanismi che avevo in testa al tempo (e ancora oggi), ma non la totalità. E se anche fosse, credo comunque mi abbiano migliorato. Però se potessi tornare indietro e scegliere tra il conoscere il mio valore e il derivarlo dagli altri, credo scegliere il primo al prezzo dell'arte. Però non è così che funziona. La vita intendo. E questo non è un testo per piangermi addosso. Questo è un testo per riconoscere i passi che mi hanno portato a questa scrivania, davanti a questa tastiera. Penso sia l'unica cosa che controlliamo del passato. La narrazione.

PENSARE

Non abbiamo di sicuro la possibilità di cambiare ciò che è stato. Possiamo però ripercorrere i passi all'indietro, osservare, rivivere, riconoscerci senza l'indifferenza degli altri che non sapranno mai com'è stato. Abbiamo questo strumento sottovalutato: l'empatia verso noi stessi e soprattutto verso noi più giovani. Perché si parla sempre di empatia verso gli altri, ma quando si tratta di perdonare gli errori che abbiamo fatto quando pensavamo di avere ragione, siamo gli ultimi della fila. Ed empatia non vuol dire darsi delle giustificazioni. Quella è disillusione o impotenza rispetto a problemi che pensiamo risolti ma sono ancora presenti nella nostra vita.

Ma l'empatia è un'altra cosa. L'empatia è riconoscere gli errori e la situazione da cui sono nati. E, di conseguenza, derivarne una lezione di vita, compassione verso di noi e gratitudine perché siamo in un posto diverso da allora.

Io, ora, non ho intenzione di smettere di scrivere canzoni, poesie o disegnare gli alberi di casa mia. Però ogni volta che prendo in mano una penna, mi assicuro che quella linea che sto tracciando é una linea che sto tracciando per me, per essere testimone del mondo che ho intorno ed essere testimone della ricchezza che ho dentro. E quando la linea si stacca dal foglio, ecco la mia testimonianza che muore sopra la carta, perché non è di nessun altro se non di quel momento impresso nel tempo.

Poi, capiterà prima o poi che vorrò condividere una mia creazione? Sicuro. Probabilmente manderò questo testo a qualcuno. Però non sarà più un modo per comprare attenzione, ma piuttosto un modo per condividere una testimonianza, un'idea o anche solo qualche linea su un foglio di carta. Prima, quando facevo vedere le mie foto, in verità, quello che mettevo in mostra era il mio ego che più veniva osservato e più cresceva. Ora mostro le foto. Suono le canzoni. Io non ricavo nulla dai commenti degli altri. La massima soddisfazione è quella di avere fotografato la mia anima, suonato il mio spirito per qualche breve minuto o avere narrato qualche albero rigoglioso del panorama dentro di me.


L'arte non è degli artisti. L'arte parla degli artisti, ma non si possiede. Quando faccio una foto ad una piazza, io non possiedo quella foto: è la foto che possiede me, perché sono io che vengo fotografato attraverso la piazza. È anche per questo che l'arte rispecchia la società. Perché non può fare altro che riflettere uno spiraglio di luce nel mondo del suo creatore, ma non appartiene a lui, lo racconta. So che è un discorso poco chiaro e che a tratti si contraddice, ma davvero non saprei come dirlo in modo migliore.

L'arte non è di chi la fa, ma di chi è fatta. Bisogna allontanarsi dalle proprie creazioni allo stesso modo in cui per fare una buona foto è necessario allontanarsi dal soggetto per metterlo a fuoco. Quindi artisti allontanatevi dalla fotocamera. Diventate il panorama. Solo così si fa una foto.

Un viaggio alla ricerca della normalità

tramonto

Il viaggio mattutino verso l'ufficio offre sempre degli spunti di riflessione. Sarà che sono le otto di mattina e non mi basta mai una tazzina di caffè per diventare un adulto; sarà che il viaggio dura un'ora e verso metà finisco la dose di notizie giornaliere che mi interessano.

Sarà che viaggiare nel flusso di macchine, di gente che si mette sulla strada alle otto di mattina, ed essere così bene incastrato tra la macchina davanti e il camion dietro, tra tutti i rumori che confluiscono nella sinfonia urbana tangente al mio terzo risveglio mentre spio i volti dietro lo specchio, mi ricordano che pure ieri l'ho fatta quella strada. E domani la farò.

E immediatamente mi sale questa voglia di tradurre tutta la quotidianità in un rito religioso. Di calcolare ogni mia minima abitudine, per vestirla di gloria e grandi intenzioni, gesta e sforzi che ammiccano all'eroico e all'epica (che proprio ieri leggevo che era da matti leggerla e ancora più da matti era crearla di nostra mano).

Mi sento spesso, in quei viaggi di mattina, un eroe epico. Non romantico. Romantico sarebbe uno che si incammina idealizzando la metà come il momento di gratificazione massima dal travaglio di essersi messo in cammino. Ma proprio perchè è alla ricerca della gratificazione della fine del viaggio, il suo viaggio non finisce mai. Semplicemente ne inizia di nuovi. Entra in ogni casa che può, ma rimane deluso e se ne esce lasciando la porta aperta. Un eterno clandestino nelle mani dei cartelli stradali che lo puntano non verso la meta, ma più lontano possibile da dove ha iniziato.

Un eroe epico, invece, si ritrova con i piedi sulla strada e non può fare altro che percorrerla tanto a lungo, quanto a lungo la luce lo condurrà dentro di sè. E non è UNA meta che insegue, ma è la consapevolezza di avere viaggiato ed essersi addormentato alla penombra di ogni nuovo orizzonte.


Sembrerebbe una contraddizione descrivere un viaggio che si ripete ogni 8.00 e 12.00 di mattina come un viaggio epico, ma è proprio lì il posto dove dobbiamo cercarla l'epica.

Negli strappi di realtà che lasciano intravedere un mondo di simboli al di sotto di tutta la normalità boriosa di questi tempi.

Nei panni stesi al sole (quando c'è) o nei nostri 'oh cazzo' quando ci dimentichiamo di raccoglierli.

Nei colori delle case, che sembrano scelti a caso dalle coppie che ci vivono, ma in verità sono orchestrati da una sorta di coscienza condivisa (simile a quella di Jung, più o meno) e quindi dall'umanità intera.

Nelle storie popolari che ti scivolano addosso tutta la vita, ma poi arriva il giorno che scambi due parole con il matto del villaggio e ti sembra di vivere in una fiaba e un po' lo invidi.

Nel continuo sforzo umano di incontrarsi, rifiutando che tempismo e distanza siano forze più ponderanti dell'amore e dell'amicizia.

Nelle cene tra amici, conoscenti, pranzi condivisi coi colleghi, aperitivi di gruppo con sconosciuti annessi che alla fine ti salutano abbracciandoti.

Insomma l'epica delle storie piccole e appese al sole (sì, come i panni sporchi che ci siamo dimenticati qualche passo prima), apparentemente usate, trite e ritrite, ripetitive, ma nella verità mai uguali.


E cosa c'è di più epico di una storia unica, inimmaginabile e nuova ogni volta che nasce un nuovo essere umano sulla terra, espressa in tutti questi rituali condivisi che spostano avanti il piede destro e il piede sinistro di tutti noi, alla ricerca di nuovi orizzonti sotto cui addormentarsi?

tramonto

  1. sono stato cresciuto con un'educazione di imperativi
  2. ho internalizzato la convinzione che esiste un'autorità unica e oggettiva che organizza il bene e comanda le vite di tutti noi. il principio primo.
  3. ho iniziato a odiare questa entità che, mi era stato insegnato, viveva fuori da me. quindi abbandonarmi a quella voleva dire sacrificare il mio diritto all'autodeterminazione per la conquista del uniformazione al bene oggettivo.
  4. mi sono ribellato a questa. odiavo l'atto di consegnarmi liberamente ad un sistema di regole, con la speranza di guadagnare una felicità regolamentata.
  5. nel mio ribellarmi ho commesso un errore. ho fatto del mio rifiuto delle autorità e delle loro leggi, un'autorità ancora più grande. in questo modo, non solo ho aderito inconsapevolmente al mio nemico, ma soprattutto reso me il nemico di me stesso. l'autorità da combattere.

Ora dopo anni a combattere, solo ora, mi accorgo che il nemico non c'era. C'ero io, abbandonato in mezzo ad un educazione inadatta a me. C'erano i miei tentativi di razionalizzare le mille direttive imprescindibili dei grandi al posto di un ti voglio bene. C'era il mio sconforto nel trovarmi in un mondo che mi spaventava, perché se non c'era nessun modo di sapere se stessi sbagliando, nemmeno c'era un modo di capire come fare giusto. Come non finire nella merda. Come non perdermi nei miei errori. C'era un bambino silenzioso che preferiva vedere nemici, piuttosto che estranei. Ma non c'erano nemici. E di sicuro non c'erano autorità assolute e imprescindibili.

C'erano e ci sono diversi livelli di abbandonarsi al caso, diversi modi per interpretare le coincidenze e gli imprevisti e diverse strade per ogni essere umano. Ci sono mille modi nuovi di vedere la stessa cosa e mille cose in più che vedrai te e non vedrà mai nessun altro. E soprattutto ci sono i dubbi e il tentativo umano di fuggirli. Tentativo che deve rimanere tale, senza prolungarsi o imprimersi nel nostro modo di fare. Mi sembra giusto cercare dei punti fermi. Ma diventa malato lasciarsi accecare da questa missione.

Quindi andare. Avanti sempre. Convinti spero. Contenti è meglio. E mai cercare nemici. Al massimo vicini di casa un po' molesti.

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il fuoco

in queste sere di gennaio, in cui mi ritrovo sempre i piedi gelidi, mi ritrova ad aspettare solo una cosa: il fuoco. quel lento accendersi delle fiamme, che a mano a mano illuminano sempre meglio la stanza, scandisce in maniera inequivocabile il passare delle giornate. come quando in vacanza misuriamo il tempo in giorni che restano prima di tornare alla vita di tutti i giorni, in questi giorno misuro l'avanzare sulla luce che esce dal mio camino la sera. quando la vedo è il segnale che un'altra giornata è andata.

è una cosa appagante. calcolo sempre la posizione ottimale in cui sistemare i miei piedi gelidi per ricevere più calore possibile. mi sembra sia sempre così. noi uomini dividiamo il tempo in unità di piacere e misuriamo le giornate secondo il tempo che rimane alla nostra felicità (personale e momentanea). poi abbiamo inventato gli orologi, perché sono assoluti e oggettivi e, soprattutto sincronizzati. perché la mia gioia, a gennaio, arrivava una volta al giorno, tutte le sere. diversamente ad altri.

fin da quando ero piccolo, il fuoco era un appuntamento costante e gradito a gennaio. forse, dall'infanzia, era cresciuto il mio gradire il calore in proporzione a quanto era diminuita la mia tolleranza del freddo. prima mi gettavo in ogni situazione scomoda senza pensarci. col tempo divenni più cauto. cercavo conforto nelle mie passioni e aspettavo la sera. ora non l'aspetto più, ma quando arriva sorrido.

il percorso tabiano – montale

le mattine invece sono veloci, piene di impegni e scadenze. all'inizio i ritardi erano molti. ma poi, piano piano, mi sono lasciato addomesticare dalla routine. sveglia alle 7.00, colazione e via in bagno per uscire di casa alle 8.00. un'ora di macchina e una puntata di podcast dopo sono a montale, pc, davanti alla porta dell'ufficio ad aspettare i colleghi con le chiavi. in genere c'è sempre un ragazzo prima di me, chris, di cremona. penso segua pressappoco la mia stessa routine, ma a lui viene più automatica, quasi un'opera d'arte. pure a programmare sembra un robot. tiene gli occhi aperti e fissi sullo schermo.

l'insostenibile leggerezza dell'essere

alle 19.52 ho finito di leggere la seconda parte del libro di Milan. faccio fatica a capire come una persona vera possa scrivere con occhi così aperti e con così tanta scioltezza nell'esposizione. mi viene difficile credere che i suoi personaggi siano inventati, anzi un po' mi ferisce. mi ferisce pensare che, in verità, non sia mai esistito nessun thomas, nessun karenin o nessuna tereza. pensieri da sempliciotti – mi rimprovero. però davvero dev'essere un mestiere violento quello di inventare delle vite e lasciare che uomini e donne se ne innamorino, per poi confinarli su un tomo di carta.

ma confido nei grandi numeri e nella probabilità statistica che, tra tutti gli 8 miliardi, esista un thomas e una tereza da qualche parte. magari con nomi diversi e capelli mori, ma comunque finiti insieme per strane coincidenze, una canzone di beethoven o un viaggio in treno a casa di lui. certe storie dovranno pure succedere. se no che senso ha tutto questo pathos? l'umanita ha passato tutta la sua storia ad insegnare ai propri figli ad impazzire davanti a una bella ragazza e poi, mi dite, che certe storie sono destinate ad esistere solo in un libro?

6/01

Siamo arrivati alla capitale che erano le 9 passate. Pioveva copiosamente, infatti la prima cosa da fare è stata infilare tutta la scarpa in una pozzanghera grigia. Mi sono maledetto in silenzio. * Qui non c'è molto da vedere. Un castello, una piazza, la funicolare, i vicoli e le chiese. Rimane comunque un posto accogliente, un luogo comodo in cui passeggiare. Forse l'unica capitale di cui potresti dirlo. * Abbiamo pranzato in ristorante. Io ero indietro con le spese, quindi ho offerto a tutti e ho visto volare via un 227 euro morbidi morbidi dalle mie tasche. Diamine. Però buon pranzo. E strudel eccellente. * Il pomeriggio pioveva ancora. Abbiamo deciso di prendercela comoda, guardare un po' in giro e poi tornare a casa. Nei negozietti abbiamo comprato un salame d'orso (non sapevo si potessero fare salami con carne d'orso), uno di camoscio e dei liquori dolci per la sera. * I bus non hanno biglietti. Lo abbiamo scoperto all'ultimo. Si sale e si paga e basta. Simpatico. Ci siamo fatti una buona mezz'ora di corriera per tornare al parcheggio del pulmino e poi altri 45 minuti di macchina per tornare a Bled fradici e stanchi. Tutto sommato una buona giornata.

5/01

Ci siamo svegliati tutti tardi. Verso le 10.00, a parte diego che doveva studiare per l'esame dell'8. Abbiamo mangiato biscotti della marca Budget, latte e uova strapazzate ed ora stiamo per uscire. Siamo diretti alla città del miele, un piccolo borgo antico, famosa per i suoi alveari. * Radovljica è bellissima. Divisa in quartiere vecchio e nuovo. Molto intima e tranquilla, lontana dai ritmi dei turisti. Ho mangiato fritto misto con Diego. Ce n'era tanto. * Ora gli altri giocano. Si divertono con un gioco di carte chiamato Munchkin Ktulu. Io scrivo. La marti dorme e la pasta è sul fuoco. Oggi sono andato al cesso dopo quattro giorni. Mi viene sempre difficile quando sono fuori casa. Mi dà particolarmente fastidio non essere seduto sulla ciambella a cui sono abituato. Mentre scorrevo i reels, mi chiedevo quali fossero le altre cose che ho legato al posto in cui sono cresciuto. Pensavo che sono abituato a vivere secondo la mia esperienza nell'infanzia e finisco spesso a limitarmi perché evito i cambiamenti. Quanto spesso mi convinco che cose non possano andare in altri modi... * L'acqua sta bollendo sui fornelli a induzione. Il rumore mi fa pensare ad Ali, ai suoi fornelli in quella cucina stretta e rossa. Penso che ormai sia diventata un cosa quotidiana chiederci cosa mangiare, se mettere su la pasta, io e te. Ieri mi è mancata molto. foto di tazzine in ceramica

3/01

La birra Pittinger è una chiara leggera che sembra fanta, non rimane sullo stomaco e non la senti quando ti alzi dubbioso per andare al bagno.

È una birra slovena con la latta nera e grigia e scritte che non riconosco, 4,2%, confezionata in Austria. Ne abbiamo bevute 5 in cinque, condividendone ognuna. Le abbiamo aperte una alla volta e le abbiamo bevute.

La Pittinger è buona e leggera. Ho ascoltato i miei amici cantare e parlare sopra un film. Mi sono bevuto la Slovenia in qualche sorso e fino all'ultimo ho riso.

Oggi preparativi per il viaggio. Da un po' di tempo andavamo avanti a contarcela questa storia del viaggio in pulmino. Io pensavo fosse una delle solite cose che si dicono per provare il brivido del perchè no?, però poi non si fanno mai; invece mi ritrovo a scrivere queste parole per postporre l'ineluttabile fatica di fare la valigia(che comunque per me sarà uno zaino).

Da un po', dicevo, andavamo avanti con questa storia e alla fine ci siamo decisi un po' per caso: abbiamo noleggiato un pulmino da sei, una casa (con recensioni preoccupanti) in Slovenia e abbiamo chiesto a ChatGPT di organizzarci il viaggio.

Quindi ho deciso di cogliere la palla al volo e iniziare questa mia sfida di scrivere un post al giorno con un mini progettino: documenterò giorno per giorno questo viaggio. Mi sembra un buon modo per iniziare con carica questo blog.

Quindi oggi darò i dettagli preparativi.

I viaggiatori: Jack, Pera, Matti, Filo, Die e Marti. Manca la marti che faceva la foto La meta: Bled, Slovenia (5h di macchina da Fidenza). Bled, Slovenia Durata del viaggio: 5 giorni, dal 3 al 7 gennaio 2024. Mezzo: Il pulmino noleggiato. La playlist spoty: Bled coi Blod

Sono un appassionato di scrittura, poesia e canzoni. Mi piace esplorarle attraverso esperimenti con amici: 1. ho pubblicato un libro di gruppo 2. ho pubblicato un libro di poesie con daniele 3. ho prodotto un intero album di canzoni sulla vita a Milano

Oltre a questo studio Ingegneria Informatica a Parma e lavoro in una software house di Piacenza, Likable Hair. Sono abituato a cercare nuove sfide e trovare il modo più creativo possibile per risolverle, mi piace creare e scoprire nuove cose.

Questo blog è una nuova sfida personale. Ho intenzione di scrivere un post al giorno per il resto di quest'anno. Sono curioso di vedere cosa succede, cosa imparerò nel processo o se sarà solo una perdita di tempo. La scrittura mi ha sempre interessato, ma fino ad ora mi sono limitato al ruolo di lettore (escludendo i tre progetti sopra). Non ho mai preso un impegno di scrivere con costanza e continuità.

Spero comunque che questo non sia solo un esercizio per me, ma di lasciare qualche parola significativa a chiunque leggerà. Forse è un po' ingenuo, ma mi piace pensarlo.

Mi trovate su – mastodonsubstack

Buona lettura <3

io