Lontano

Mi voglio solo se tu mi vuoi.

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Mi voglio solo se tu mi vuoi. Ho trovato molte varianti di questa frase in diversi film, libri, video, canzoni. E per quanto innocua e affettuosa possa sembrare, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che sia più che altro un modo per romanzare la solitudine e l'insicurezza.

Io sono sempre stato molto produttivo sul fronte creativo: ho registrato diversi album musicali, ho prodotto 2 libri di fotografia, ho partecipato a spettacoli teatrali (sono stato pure il protagonista di un musical scritto e realizzato con gli scout), ho dipinto, disegnato e ridipinto quasi ogni albero intorno a casa mia e ho scritto delle montagne di poesie e testi in prosa. Abbastanza produttivo insomma. Però ho sempre avuto un dubbio: come mai sto facendo così tanto di tutto questo? Mentre io mi perdevo in queste digressioni artistiche, i miei coetanei erano impegnati a studiare, rimanere al passo con gli esami, trovarsi un lavoretto per pagarsi le vacanze al mare, etc... Io ero così motivato a fare tutt'altro, ma da cosa?

Ieri sera sono andato a letto intrattenendo il pensiero che tutto ciò che ho fatto l'ho fatto per potermi vedere come una persona desiderabile. Forse proprio perché io ho sempre desiderato essere un'artista di successo, ho collegato questa figura al mio desiderio, pensando che se io fossi stato una artista, allora ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe desiderato essere come me. E probabilmente, il fatto che nella nostra società gli artisti/attori/cantanti sono osannati come dei, mi ha potenziato e giustificato questa mia convinzione.

In questo senso, ogni nuovo prodotto della mia creatività potrebbe essere inteso come un passo in avanti nella mia impresa per conquistare la desiderabilità. Un mi vorrò, perché voi mi vorrete!

E tutto ciò mi fa schifo. E se scavo un po' più a fondo, mi fa paura. Paura di ammettere che tutto ciò che ho realizzato è tanto un prodotto dell'impegno, quanto un prodotto della frustrazione; paura di ammettere a me stesso che le canzoni, le foto, le poesie e tutto il resto non erano prove che fossi un artista, ma erano prove che stavo cercando validazione nei complimenti degli altri. Perché ad ogni “bella quella canzone, paco” io sentivo “dai, non sei così male, alla fine qualcosa la sai fare”.


Non so cosa ci sia di vero in questi pensieri. Credo siano un lato dei meccanismi che avevo in testa al tempo (e ancora oggi), ma non la totalità. E se anche fosse, credo comunque mi abbiano migliorato. Però se potessi tornare indietro e scegliere tra il conoscere il mio valore e il derivarlo dagli altri, credo scegliere il primo al prezzo dell'arte. Però non è così che funziona. La vita intendo. E questo non è un testo per piangermi addosso. Questo è un testo per riconoscere i passi che mi hanno portato a questa scrivania, davanti a questa tastiera. Penso sia l'unica cosa che controlliamo del passato. La narrazione.

PENSARE

Non abbiamo di sicuro la possibilità di cambiare ciò che è stato. Possiamo però ripercorrere i passi all'indietro, osservare, rivivere, riconoscerci senza l'indifferenza degli altri che non sapranno mai com'è stato. Abbiamo questo strumento sottovalutato: l'empatia verso noi stessi e soprattutto verso noi più giovani. Perché si parla sempre di empatia verso gli altri, ma quando si tratta di perdonare gli errori che abbiamo fatto quando pensavamo di avere ragione, siamo gli ultimi della fila. Ed empatia non vuol dire darsi delle giustificazioni. Quella è disillusione o impotenza rispetto a problemi che pensiamo risolti ma sono ancora presenti nella nostra vita.

Ma l'empatia è un'altra cosa. L'empatia è riconoscere gli errori e la situazione da cui sono nati. E, di conseguenza, derivarne una lezione di vita, compassione verso di noi e gratitudine perché siamo in un posto diverso da allora.

Io, ora, non ho intenzione di smettere di scrivere canzoni, poesie o disegnare gli alberi di casa mia. Però ogni volta che prendo in mano una penna, mi assicuro che quella linea che sto tracciando é una linea che sto tracciando per me, per essere testimone del mondo che ho intorno ed essere testimone della ricchezza che ho dentro. E quando la linea si stacca dal foglio, ecco la mia testimonianza che muore sopra la carta, perché non è di nessun altro se non di quel momento impresso nel tempo.

Poi, capiterà prima o poi che vorrò condividere una mia creazione? Sicuro. Probabilmente manderò questo testo a qualcuno. Però non sarà più un modo per comprare attenzione, ma piuttosto un modo per condividere una testimonianza, un'idea o anche solo qualche linea su un foglio di carta. Prima, quando facevo vedere le mie foto, in verità, quello che mettevo in mostra era il mio ego che più veniva osservato e più cresceva. Ora mostro le foto. Suono le canzoni. Io non ricavo nulla dai commenti degli altri. La massima soddisfazione è quella di avere fotografato la mia anima, suonato il mio spirito per qualche breve minuto o avere narrato qualche albero rigoglioso del panorama dentro di me.


L'arte non è degli artisti. L'arte parla degli artisti, ma non si possiede. Quando faccio una foto ad una piazza, io non possiedo quella foto: è la foto che possiede me, perché sono io che vengo fotografato attraverso la piazza. È anche per questo che l'arte rispecchia la società. Perché non può fare altro che riflettere uno spiraglio di luce nel mondo del suo creatore, ma non appartiene a lui, lo racconta. So che è un discorso poco chiaro e che a tratti si contraddice, ma davvero non saprei come dirlo in modo migliore.

L'arte non è di chi la fa, ma di chi è fatta. Bisogna allontanarsi dalle proprie creazioni allo stesso modo in cui per fare una buona foto è necessario allontanarsi dal soggetto per metterlo a fuoco. Quindi artisti allontanatevi dalla fotocamera. Diventate il panorama. Solo così si fa una foto.