Mercenari

Predicazione su Giovanni 10,11-16

Chi non la conosce, l'arte pia che ha come soggetto il buon pastore. Viene dipinto un Gesù vestito di bianco, il vestito senza macchia, senza strappi. Gesù stesso con uno sguardo dolce, un viso che sembra appena uscito da un centro benessere, le mani con unghie ben curate, mani che fanno intravedere che questo Gesù non è capace di lavorare duro, pena vesciche che si formerebbero nemmeno dieci minuti di lavoro duro. Talvolta questo buon pastore porta sulle sue spalle una pecora o un agnellino ed è circondato da una mandria di belle pecore ponchie. E, siamo sinceri, molti degli inni del nostro innario hanno lo stesso sfondo idilliaco non solo con le melodie, talvolta anche con i testi.

Un tale dipinto, una tale melodia, un inno che descrive il buon pastore in colori rosei sono lontani anni luce dalla realtà della vita di un pastore. I pastori di tutti i tempi sono persone ai margini della società, sempre fuori, con un lavoro duro che non da loro un'aspettativa di vita elevata, anzi invecchiano velocemente essendo loro esposti a tutte le intemperie del tempo. Il conflitto dei pastori con i contadini sedentari ha una lunga cultura e la Bibbia ne è testimone, già al suo inizio – Caino e Abele.

Se poi vediamo come si chiamano i pastori della storia recente – Cowboy, Gaucho – il quadro di persone ruvide, talvolta violente e fuori legge, veloci con il revolver (Cowboy) si completa, un quadro in forte contrasto con il nostro immaginario del pastore.

E' ovvio che Gesù non vuole esaltare la professione del pastore, o meglio, non la vuole idealizzare. Se sceglie la figura del pastore per spiegare com'è lui e per farci capire come dovremmo essere noi, lo fa per la sua abitudine di prendere degli esempi dall'orizzonte e dall'immaginario collettivi della sua gente. Il pastore è solo lo sfondo, il messaggio non è direttamente collegato a queste figure ruvide ma al modo di esercitare questa professione.

Abbiamo da un lato il buon pastore, il buon pastore riceve le sue pecore dal padre, è quindi l'erede, il successore. Le pecore sono del padre, ma il futuro del buon pastore è strettamente legato al futuro della mandria. Ci vogliono impegno e cura. Il buon pastore diventa uno con le sue pecore, le chiama con nome, le cura e fa di tutto per farle crescere bene, perché dalla salute della mandria dipende il suo futuro, la sua vita. Se perde la mandria, perde se stesso, va in bancarotta. Il buon pastore è perciò strettamente legato alle sue pecore, dipende da loro e loro dipendono da lui.

Dall'altro lato c'è il mercenario, l'operaio talvolta solo a giornata, che oggi lavora e forse domani non trova lavoro. Le pecore non sono sue. Fa il lavoro per un altro e con esso a malapena si guadagna solo il suo pane quotidiano. Il mercenario non ha bisogno di entrare in simbiosi che le pecore, tanto non sono le sue. Il mercenario vuole solo arrivare a sera, al pagamento per mettersi qualcosa fra i denti.

Ora il Gesù dell'Evangelo di Giovanni si identifica con il buon pastore per dire alla chiesa di Giovanni: non sono un mercenario, non vi lascio orfani in nessuna situazione, sia essa anche difficile.

E ora? Che si fa con quest'affermazione del Risorto di essere il buon pastore? Arte pia che relega Gesù nei quadri appesi in camera da letto? Una confessione di fede cantata con fervore prendendo uno degli inni? Se ci limitassimo a ciò saremmo poveri testimoni del Risorto che invece non lascia occasione per rinnovare l'invito a seguirlo. Il Risorto non vuole essere relegato in camera da letto, non vuole essere adorato, infatti, non lo chiede mai a nessuno. Il suo invito costante è: seguimi.

Ed è qui che la questione del contrasto fra il buon pastore e il mercenario ci coinvolge in prima persona. Seguitemi, voi siete figlie e figli di Dio, Dio vi affida questo mondo: uomini e donne, animali, piante. Se stanno bene, state bene anche voi, se li trattate male, tutto ciò si ripercuoterà anche su di voi.

Non siate mercenari! Ma quante volte lo siamo! Quante volte ci comportiamo come mercenari che agiscono senza una prospettiva positiva da buon pastore, anche all'interno delle nostre chiese nella prospettiva di un mondo da custodire.

Se andiamo dalla chiesa alla vita quotidiana, l'orizzonte da mercenario si allarga a dismisura: il cambiamento verso energie rinnovabili? Troppo caro. Meno rifiuti elettronici? Guasta la festa. Merce sfusa invece di confezionata in tanto materiale che poi va in spazzatura? Troppo complicato. Usare meno la macchina? I mezzi pubblici non funzionano, in bici troppo pericoloso, a piedi vanno solo i matti.

Viviamo in un mondo di mercenari, stiamo perdendo la sensazione di essere fatti gli uni per le altre. Siamo sulla buona strada di distruggere noi e il pianeta con questa mentalità.

Abbiamo solo questo pianeta. Non possiamo lasciarlo e poi abitare un altro. C'è solo questa umanità, non possiamo separarci da essa. C'è una sola comunione fra le creature di Dio, non viviamo se ci autoscomunichiamo da essa. Non abbiamo niente e nessuno oltre al mondo in cui viviamo, il mondo ci è stato affidato da Dio affinché siamo dei buon pastori e delle buone pastore seguendo l'esempio di Gesù.

Già il profeta conosce i “suoi” mercenari, gente che sfascia invece di fasciare, che uccide invece di guarire, che sfrutta invece di condividere.

E' per questo che il Risorto si identifica con la figura del buon pastore e vuole che lo seguiamo. Il Risorto ha in mente una chiesa in cui la mentalità mercenaria lasci lo spazio alla mentalità del buon pastore, dove la testimonianza della Vita che riecheggia domenica dopo domenica nei culti, prenda forma in un impegno di comunione e di condivisione a livello globale.

La mentalità mercenaria porta alla morte del Creato e di un numero infinito di persone, l'impegno del buon pastore è in grado di fasciare le ferite e di incamminarsi così verso un altro mondo che vuole rendere possibile e vivibile qui ed oggi affinché la Risurrezione non diventi un dogma vuoto ma forza della mia vita e del mio impegno.

Rimane quindi un chiaro incarico: abbiate cura di voi, del prossimo, del pianeta. Essere il buon pastore alla fine non vuol dire altro che vivere in una relazione sana rispecchiata dal comandamento che Gesù stesso ci insegna: amare Dio e il prossimo come se stessi, il triangolo dell'amore. Dentro c'è tutto il mondo, tutto il creato, ma in una visione in cui noi non siamo la corona del tutto ma in rete chiamate e chiamati a vivere in armonia.

Jens Hansen

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