Dati avvelenati Una mattina Tommaso aprì la posta e vide il messaggio: «Problema urgente sul tuo conto — clicca qui per risolvere». Nel giro di trenta minuti aveva perso più di quanto guadagna in un mese. Non era soltanto un’email: era il prodotto di una catena che mescola dati rubati, messaggi automatizzati e una verità costruita ad arte. Benvenuti nell’era dei dati avvelenati. Non sono veleni fisici, ma intossicazioni della fiducia che corrodono conti, reputazioni e, a volte, intere istituzioni. L’inganno gentile Oggi l’inganno non urla, sussurra. Non ti punta una pistola digitale alla tempia, ma ti offre un clic gentile, una promessa di sicurezza, un “aggiorna qui per la tua protezione”. E tu, che magari sei stanco, distratto o semplicemente di fretta, accetti l’invito come si accetta un biscotto da un vicino di casa. Peccato che il biscotto contenga un virus… e il vicino non abiti nemmeno nel tuo quartiere. Il vero virus del nostro tempo non infetta i computer, ma le percezioni. È un malware cognitivo, una specie di infiltrazione nella fiducia che regola ogni nostro gesto quotidiano: crediamo a ciò che leggiamo, clicchiamo su ciò che sembra vero, condividiamo ciò che ci appare verosimile. La truffa non ha più bisogno di farti paura: basta che ti rassicuri. Viviamo immersi in un web che non è più una rete di informazioni, ma una rete di convinzioni. E ogni giorno qualcuno getta nell’acqua digitale una goccia di veleno: un dato falsato, un link travestito, una notizia manipolata. Il problema non è solo tecnologico. È culturale. È come se il dubbio fosse diventato un difetto e la fretta una virtù. Dati al gusto di veleno Cosa sono, in fondo, questi “dati avvelenati”? Nel linguaggio tecnico si parla di data poisoning: l’inserimento intenzionale di informazioni false nei sistemi informatici, nei database o perfino negli algoritmi di intelligenza artificiale. In pratica, qualcuno insegna a un sistema a riconoscere un gatto… e il sistema comincia a credere che i gatti abbiano otto zampe. E il bello — o il tragico — è che l’algoritmo non se ne accorge. Per lui, la realtà è solo la somma dei dati che riceve. Siamo arrivati a un punto in cui la verità dipende da chi fornisce i dati. E quando i dati sono corrotti, anche la realtà lo diventa. È come se il mondo digitale stesse imparando a raccontare bugie con naturalezza, imitando l’uomo nella sua più antica arte: la falsificazione. Il rischio è sottile e subdolo: non è il grande attacco hacker che ci distrugge, ma la lenta erosione della fiducia. Non l’esplosione del virus, ma la goccia che cade ogni giorno, insinuando il sospetto che nulla sia autentico, nemmeno ciò che vediamo. Le trappole eleganti Un tempo le truffe erano grossolane: email scritte in un italiano incerto, promesse di eredità lontane e principi nigeriani con problemi bancari. Oggi la truffa è diventata minimalista e raffinata: loghi perfetti, firma digitale, tono istituzionale, persino un indirizzo reale. Ti scrivono la tua banca, il tuo gestore telefonico, a volte perfino un collega — o almeno, così sembra. La truffa moderna è un’opera di design. Non mira solo al denaro: mira alla credibilità. Ogni volta che cadiamo in un raggiro, anche piccolo, una parte della nostra fiducia si incrina. E quando la fiducia si incrina, la società vacilla. Eppure continuiamo a pensare che a noi non capiterà mai. È questa l’illusione più efficace: credere di essere immuni. La verità è che tutti, almeno una volta, abbiamo cliccato dove non dovevamo. Solo che la maggior parte delle volte abbiamo avuto fortuna. E la fortuna, si sa, è un antivirus che scade presto. L’inganno che si fa algoritmo Non sono più solo i truffatori a manipolare la realtà: oggi lo fanno anche le macchine, spesso senza rendersene conto. Un video può mostrare un politico che dice cose mai pronunciate. Una voce artificiale può telefonare a tua madre con la tua stessa voce. E un sistema di intelligenza artificiale può essere addestrato con dati falsi per fargli “credere” ciò che conviene a qualcuno. È la nuova frontiera del falso: il deepfake emotivo. Non basta più ingannare la vista — ora si punta al cuore. Le tecnologie di sintesi vocale e d’immagine non creano solo contenuti falsi: creano emozioni vere, reazioni autentiche a qualcosa che non è mai accaduto. E così, mentre corriamo dietro alla “verità digitale”, dimentichiamo la verità più semplice: non tutto ciò che sembra reale lo è, e non tutto ciò che è reale riesce più a sembrare vero. L’algoritmo non ha morale, ma ha fame. E mangia di tutto, anche i dati avariati, anche le nostre paure. La fiducia come antivirus Contro i dati avvelenati non esiste vaccino, ma esiste una cura: la consapevolezza. Non serve diventare esperti di cybersecurity, basta riscoprire l’antico gusto del dubbio. Leggere con attenzione, verificare le fonti, fermarsi un istante prima del clic. È la pausa che salva, l’attimo che ci restituisce il controllo. E magari sorridere un po’. Perché sì, l’ironia è un ottimo antivirus: ci ricorda che non siamo macchine e che il pensiero critico, quando si accende, è più potente di qualsiasi firewall. La verità, in fondo, è un software che va aggiornato spesso. E se il mondo digitale ci insegna qualcosa, è che la fiducia è fragile ma necessaria. Senza fiducia, Internet diventa una giungla; con troppa fiducia, diventa una trappola. Il segreto sta nel mezzo: nel restare vigili, ma non paranoici. Curiosi, ma non ingenui. E se vi arriva un’email che promette un premio, un’eredità o un bonus inatteso… beh, ricordatevi di Tommaso. Perché nel grande teatro del web, l’unica cosa che non si può scaricare è il buon senso

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