Colonnello Lobanovskyj

Валерій Васильович Лобановський

6 dicembre. A trent’anni di distanza

Salvemini

Il 6 dicembre del 1990 era una giorno di sole. Lo ricordo perfettamente, come se fosse ieri. Avevo vent'anni e una fidanzata che frequentava l'Istituto Tecnico Salvemini di Casalecchio di Reno. Ma ero anche, da tre anni, volontario presso la Pubblica Assistenza del mio paese. Quella mattina, come spesso mi accadeva, non avevo voglia di studiare. Come facevo spesso passai dalla sede dell'Associazione, che era, allora, in centro al paese. Non ero in servizio, chissà, forse dovevo fare qualcosa, o forse, semplicemente, ero passato perché non avevo voglia di andare in facoltà. Come degli spezzoni di un film, ritornano alla memoria brandelli di quella giornata. L'ufficio, nella vecchia e angusta sede, in fondo, due scrivanie ingombre di carte e un uomo, che, nonostante la vita ci abbia posti negli ultimi anni su posizioni contrapposte, considero ancora oggi un mio amico. Parliamo, non ricordo l'argomento a tanti anni di distanza, ma probabilmente questioni di gestione dell'Associazione. All'improvviso il centralinista ci passa una telefonata (era il 1990, il primo servizio di telefonia cellulare, l'ETACS, era stato messo in funzione solo l'estate precedente in occasione dei mondiali di calcio e il cellulare era ancora un oggetto misterioso). Il mio amico risponde, dice poche cose e poi mette giù. Mi dice: “Cambiati, è caduto un aereo su una scuola a Casalecchio, ci hanno chiesto un'ambulanza”. Chiedo quale scuola, lui mi dice “Il Salvemini” e io sbianco. Non esisteva un modo per contattare la persona che amavo, come detto e, anche se ero abbastanza sicuro che lei non fosse lì, ma nella sede principale, il tarlo mi rodeva il cervello, mentre velocemente indossavo la divisa. Poi partimmo, passammo a prendere il nostro autista a casa (sì, allora si faceva anche questo) e poi andammo. Arrivammo giù, per forza di cose, che la situazione era già sotto controllo, in fondo facevamo parte della seconda schiera di ambulanze, quelle inviate in appoggio. Altro flashback, arriviamo in via del Fanciullo. Ancora ragazzi e ragazze che piangono, sono gli ultimi rimasti, quelli che non so sono fatti nulla e ancora non sono stati evacuati. Giriamo dietro alla scuola, scendiamo giù dalla rampa in discesa e vediamo lo squarcio nel muro. E’ enorme, il fumo continua ad uscire dalle macerie, i vigili del fuoco stanno finendo di spegnere le fiamme, sembra una scena apocalittica. E io continuo a non sapere dove sia lei. Rimanemmo lì per un po’, senza fare nulla, in attesa che ci dessero istruzioni, tra l'andirivieni dei vigli del fuoco e dei funzionari militari e delle forze dell'ordine e gli ultimi studenti frastornati. Poi venimmo dirottati all'Ospedale Maggiore, a disposizione per eventuali trasferimenti di pazienti ustionati verso ospedali attrezzati (in Emilia Romagna i centri Grandi Ustionati stanno solo all'Ospedale Maggiore di Parma e al Bufalini di Cesena) e infine, dato che non c’era bisogno di noi, fummo fatti rientrare.

Ebbi sue notizie solo verso mezzogiorno, fortunatamente non era in via del Fanciullo e non aveva avuto nulla a che fare con l’incidente, almeno fisicamente, perché quell’evento tormentò la sua psiche per molti anni a venire. La nostra storia si concluse sette anni dopo e da allora non l’ho più rivista, ma questa è un’altra storia.

Questo non è il racconto di un eroe che fece chissà cosa in quella giornata, perché in realtà non feci praticamente nulla, ma ci finii dentro, sia personalmente che come operatore. Non ho mai raccontato questa storia e le due persone che la condivisero con me oggi non ci sono più. Forse, dopo trent’anni, era il momento giusto per raccontarla.

S-506 – Enrico Toti. 15 anni dopo

Toti

Sono passati 15 anni da quando, il 14 agosto 2005 il sottomarino “Enrico Toti” arrivò al Museo della scienza e della Tecnologia “Leonardo da vinci” di Milano, al termine di un viaggio durato sei anni. Non è l'unico sottomarino esposto a fini museali in Italia (ci sono anche il Dandolo, gemello del Toti, all'Arsenale di Venezia e il Nazario Sauro, della classe Sauro al Galata Museo del Mare di Genova), ma a differenza degli altri, che sono ormeggiati in appositi bacini, è l'unico ad essere stato tirato in secca ed esposto in una città non di mare. Il Toti (S 506) fu il primo sottomarino costruito in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale dai Cantieri di Monfalcone, tra il 1965 e il 1967, ed entrato in servizio nel 1968. Prima di quegli anni all'Italia era vietato detenere sottomarini, essendo una delle nazioni sconfitte della Grande Guerra (parte di quelle restrizioni sussistono ancora oggi, ad esempio i sottomarini italiani non possono avere la propulsione nucleare). Cadute le prime restrizioni la Marina Militare iniziò a progettare dei nuovi sottomarini di categoria SSK (Submarine-Submarine Killer), cioè progettati per dare la caccia gli altri sottomarini. Dotato di due motori diesel Fiat MB 820-N1 da 570 CV l'uno e di un motore elettrico SIEMENS da 900 CV poteva viaggiare ad oltre 14 nodi in immersione, letale e silenzioso. Dotato di un sonar posizionato nel caratteristico “naso” a prua e di un impianto idrofonico nella parte anteriore inferiore, sotto le camere dei siluri era specializzato nella caccia ai sottomarini nemici, specie quelli dei pesi appartenenti al Patto di Varsavia, grazie ai suoi quattro siluri filoguidati a testa autocercante A184. I due motori diesel erano stati soprannominati dai motoristi del sottomarino “Turiddu” (il destro, diminutivo di Salvatore) e “Ianuzzu” (il sinistro, diminutivo di Sebastiano), nomi tipici della zona di Augusta, in Sicilia, dove il Toti era di base. L'equipaggio era variabile tra le 20 e le 30 persone a seconda della missione, che facevano servizio in turni di tipo 4+4 (4 ore di turno e 4 di riposo, con lo schema detto “a branda calda”, ovvero ogni marinaio condivideva il letto con un collega) oppure 4+8 (sempre “a branda calda”, in questo caso in due letti ci si dormiva in tre). Nei suoi anni di attività il Toti fu impiegato prevalentemente in esercitazione o pattugliamento. E' famoso l'episodio accaduto durante una esercitazione NATO negli anni '70, durante la quale il Toti (sempre apprezzato per la sua silenziosità e maneggevolezza) riuscì a penetrare la scorta americana e a simulare l'affondamento della portaerei, emergendo al fianco della stessa dopo l'attacco simulato. Messo in disarmo nel 1997 fu donato al Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, e qua inizia la seconda parte della sua vita. Inizialmente stazionò nella base militare di Augusta dove fu disarmato e furono rimosse le attrezzature coperte da segreto militare, come il sistema di lancio dei siluri (a tutt'oggi ritenuto top secret dalla Marina); successivamente iniziò il suo lungo viaggio per mare, che, toccando Taranto arrivò a Chioggia trainato da due rimorchiatori. Qua venne preso in carico da due navi per il trasporto fluviale che lo portarono fino al porto fluviale di Cremona. Per permettere il trasporto lungo il Po del Toti, che rischiava di toccare il fondale del fiume le due navi furono legate tra di loro con delle funi, passate sotto al sottomarino e poi, aggiungendo e togliendo dei sassi nelle stive fu aumentato o diminuito il pescaggio per evitare impatti contro il fondo. Arrivato a Cremona il 6 maggio del 2001 vi rimase per 4 anni, fino all'8 agosto 2005, quando iniziò il suo ultimo viaggio via terra verso Milano. Nei 4 anni trascorsi a Cremona fu sottoposto a un enorme lavoro da parte dei sommozzatori del Comando Subacquei ed Incursori di La Spezia, che smontarono la “vela” (la torretta posta sopra al sottomarino) e il “naso” (la protuberanza a prua che ospitava il sonar) e soprattutto la zavorra posta nella parte inferiore del battello: decine di tonnellate di piombo (centinaia di lingotti del peso di 30 kg l'uno) poste in contenitori dello scafo chiuse da pannelli metallici. L'operazione risultò molto difficoltosa, per la visibilità quasi nulla all'interno del porto fluviale di Cremona. L'operazione di alleggerimento dello scafo era peraltro una condizione indispensabile per permetterne il sollevamento. Alleggerito e portato in secca il Toti fu poi ripulito dalle incrostazioni della chiglia e riverniciato nella sua livrea originale, prima del suo ultimo viaggio. Nelle notti che andarono tra l'8 e il 14 agosto 2005 il Toti percorse in quattro tappe la distanza tra Cremona e Milano, su un convoglio appositamente costruito, lungo 62 metri e largo 5, con 240 ruote distribuite su carrelli da 15 assi ciascuno, in grado di muoversi indifferentemente nelle due direzioni di marcia (infatti nelle immagini a volte il sottomarino viaggia con la prua all'avanti, in altre al contrario). La tappa più difficile fu ovviamente l'ultima, nella notte tra il 13 e il 14 agosto, quando il convoglio attraversò Milano fino al Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci”. Questa parte fu estremamente complicata, sia per le strade molto più strette di quelle di campagna dove il Toti aveva viaggiato fino a quel momento, ma anche per la presenza di una enorme serie di ostacoli (pali della luce, linee del tram, semafori e cartelli stradali) e soprattutto per alcuni attraversamenti che passavano sopra a infrastrutture sotterranee (basti pensare alla metropolitana) che rischiavano di collassare sotto il peso del convoglio (458 tonnellate). A questo scopo furono rimossi tutti gli ostacoli fissi e furono gettati ponti metallici sopra agli attraversamenti a rischio di cedimento. Infine, alle 6 del mattino del 14 agosto 2005 l'Enrico Toti, S-506, entrò nel cortile appositamente predisposto (a questo scopo fu necessario demolire e poi ricostruire parte del muro di cinta), dove lo attendevano le apposite selle sulle quali sarebbe stato posizionato e due gru a cavalletto che avrebbero eseguito l'operazione. Nei giorni successivi il Toti ricevette indietro la “vela” e il “naso” (che avevano viaggiato a parte) e fu predisposto per essere reso visitabile, cosa che accadde nel dicembre di quell'anno. La cosa che più deve colpire di questa storia è che essa è pervasa della genialità e della abilità italiana nel realizzare anche opere incredibili. Lo fu la costruzione dei sottomarini della classe Toti negli anni '60, progettati e costruiti talmente bene da renderli in grado di compiere operazioni difficilissime, anche se per fortuna solo in addestramento. Ma anche l'operazione di trasporto del sottomarino è una incredibile prova del genio italiano, perché ciò che fu fatto in quelle notti dall'8 al 14 agosto 2005, trasportare un mostro d'acciaio di 46 metri e 340 tonnellate attraverso una città, tra mille difficoltà, fu un'operazione di altissimo livello.

Quando le Ferrovie italiane alzarono la testa: il Settebello

Settebello

In questi giorni in cui tanto si parla dei tempi che verranno come di un nuovo dopoguerra, di una stagione in cui dovremo ricostruire l’Italia, vi voglio raccontare qualcosa della ricostruzione del dopoguerra, quello vero, quello della seconda metà degli anni 40 e dei successivi anni 50, quando l’Italia raccolse i cocci di ciò che le avevano lasciato il Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale. Ed essendo appassionato di meccanica e in particolare di treni, ve lo racconto con una storia di treni. Nel dopoguerra l’Italia aveva una delle più estese conoscenze tecnologiche al mondo, sia in materia di elettrotreni [1], che di alta velocità. Già nel 1939, quando buona parte del mondo andava ancora a vapore, le Ferrovie Italiane avevano a disposizione l’ETR.200,in grado di viaggiare a 200 km/h, con un livello di confort inimmaginabile per quell'epoca. Ma la guerra aveva decimato il parco degli ETR.200 circolanti, che comunque avevano sulle spalle parecchi anni di vita. La rinascita dell’Italia del dopoguerra doveva passare anche dalla ferrovia che, al pari di tante altre attività avrebbe poi fatto decollare quello che sarà ricordato come il “Miracolo Economico”. E quale miglior biglietto da visita per una nazione che stava rinascendo, se non un treno modernissimo, tecnologicamente all'avanguardia e, visto che siamo italiani, dal design semplicemente bellissimo? Sotto queste premesse nel 1950 le FS lanciarono la gara per la un nuovo treno di lusso, che si concluse con la realizzazione da parte della Società Italiana Ernesto Breda del più bel treno che abbia mai circolato sulla rete ferroviaria italiana: l’ETR.300, soprannominato “Il Settebello” [2] Le soluzioni con cui era stato progettato lo rendevano un mezzo davvero unico e all'avanguardia. Il design italiano, all'epoca al centro dell’attenzione mondiale, aveva dato il meglio di sé nella progettazione di questa meraviglia su rotaie. La prima innovazione che saltava agli occhi era il frontale, bombato come un aereo di linea, con un vetro panoramico che racchiudeva non la cabina di guida, ma un salottino da 11 posti, con le poltroncine disegnate dal famoso architetto Giò Ponti, progettista assieme all'architetto Giulio Minoletti dei bellissimi interni. A tutt'oggi il Settebello (assieme al suo fratello minore, L'Arlecchino) è l'unico treno in grado di offrire ai passeggeri la possibilità di viaggiare stando in testa al treno. La cabina di guida stava al di sopra dello spazio riservato ai passeggeri e, nonostante le ridotte dimensioni, la posizione arretrata e i finestrini piuttosto piccoli, consentiva un'ottima visuale ai macchinisti. Le ruote, sotto alla parte frontale erano alloggiate in due carter bombati di forma aerodinamica, verniciati in verde magnolia, come la fascia che correva attorno ai finestrini. Il resto del treno era invece di color grigio nebbia, andando a completare la nuova livrea che le FS avevano scelto per gli ETR. Le sospensioni erano state pensate per il massimo confort, grazie anche alle molle laminate e agli elementi in gomma per attutire le vibrazioni. Le carrozze erano in scomparti a salone (l'ETR.300 prevedeva solo la 1. classe) da dieci posti ciascuno, con divanetti e poltrone orientabili. Il Settebello aveva una composizione bloccata di 7 carrozze, comprese le due di testa e coda (quelle con i salottini) e una elegante carrozza ristorante al centro. Per la prima volta su un treno era prevista l'installazione di telefoni pubblici a bordo. Grazie alla potenza installata l'ETR.300 raggiungeva agevolmente i 200 km/h e copriva la tratta Roma/Milano in 5 ore e 45 minuti, quando la direttissima Firenze/Roma ancora non esisteva. Dovevano essere 8 esemplari, ma ne furono costruiti soltanto 3, a causa dei costi molto alti. Rimasero in servizio fino al 1992, quando furono accantonati. Il 301 e il 303 furono demoliti a Santhià, dopo un lungo lavoro di messa in sicurezza per via dell'amianto presente. Il 302 invece subì una sorte piuttosto strana: alla fine degli anni 80 si decise di fare un grosso lavoro di ristrutturazione e ammodernamento degli ETR.300. Solo il 302 subì questa sorte, presso le Officine Grandi Riparazioni di Bologna, dove fu snaturato completamente e andarono persi i meravigliosi interni, tutti inviati alla demolizione. In questa versione circolò fino al 2004, quando, per raggiunto chilometraggio fu accantonato prima ad Ancona, poi a Falconara Marittima, dopo essere stato depredato di tutto ciò che poteva servire. Dopo anni esposto alle intemperie e ai vandali, nel 2016 la Fondazione FS ha finalmente deciso per il suo recupero e il treno si trova ora presso le Officine Manutenzione Ciclica (ex OGR) di Voghera, dove sarà restaurato per il suo valore storico, anche se gli interni dovranno essere ricostruiti, visto che gli originali sono andati perduti. Al termine dell'operazione, del costo di circa 6,8 milioni di euro il Settebello sarà ricostruito come era negli anni 50, con in più le dotazioni di sicurezza moderne, al fine di renderlo completamente funzionante e circolante. Un giusto destino per il treno più bello mai costruito, vanto dell'industria italiana del dopoguerra e uno dei simboli della rinascita del nostro paese dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il Settebello aveva anche un fratellino minore, una versione a 4 carrozze, denominata “L'Arlecchino” (ETR.250), realizzata in 4 esemplari in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960. Erano identici al Settebello, eccezion fatta per il colore degli interni. Anche dell'Arlecchino esiste un solo esemplare rimasto, (denominato ETR.252) che però ebbe una sorte migliore del fratello maggiore. E' stato infatti conservato e restaurato e il 27 giugno 2019 è tornato a disposizione di Fondazione FS ed è attualmente preservato come rotabile storico. E' perfettamente marciante e identico a com'era negli anni 60.

[1] per la spiegazione dettagliata di cos'è un elettrotreno e della sua differenza con un treno normale potete leggere qua [2] il nome al treno fu dato dagli operai che lo costruirono. Dato che all'epoca usava denominare i treni con nomignoli figurativi, l’ETR.300 fu poi effettivamente decorato con i simboli delle carte da gioco.