La verità di Ronald
So che non è un modo originalissimo di iniziare un racconto, ma è andata così, lo giuro… Questa storia me l’ha raccontata Ronald. Immagino che voi non lo conosciate, a meno che non bazzichiate spesso tra la Euclide Street e Colorado Ave. Se per caso lo fate, vi sarà capitato di vedere un omino con un panama che è stato bianco ma che ora, a vista, è di un cenere pallido con macchie multicolori sparse. Un po’ per lo smog che appesta quella zona, un po’ per il vezzo di Ronald di inchinarsi facendo la mossa di togliersi il cappello ogni volta che vede passare qualche bella figliola o qualche signora ben tenuta. E in più di 50 anni di stazionamento sui marciapiedi di Santa Monica di belle figliole e signore ben tenute ne ha viste passare una moltitudine! Comunque, qualche giorno fa mi trovavo all’altezza dell’11th, dove c’è il concessionario Audi (grandi macchine, quelle che vengono dall’altra parte dell’oceano!), e lo vedo seduto su una panchina a fumare la sua pipa di schiuma bianca. Ronny (perché è così che tutti lo chiamano) è orgoglioso della sua pipa bianca regalo, dice lui, di una gran dama di Long Beach. Racconta che la gran donna gliela regalò per ringraziarlo di quella volta in cui, lui era ancora giovane e scattante, riuscì a bloccare il ladruncolo che l’aveva scippata della borsa. Così la gran signora, sempre a suo dire, gli chiese come avrebbe potuto sdebitarsi per quel favore e lui, che non aveva mai fumato in vita sua, chiese lì per lì la pipa di schiuma che aveva visto quella stessa mattina nella vetrina del negozio all’angolo. Sono passati un mucchio di anni e la pipa è ancora in mano a Ronny. Non è più candida come il primo giorno (come il panama, del resto), ma ancora perfettamente in servizio. Sì, bisogna dire che Ronny e la pipa formano una bella coppia. Si potrebbe quasi dire, parlando di Ronny, che è ‘quello della pipa bianca’. E allora, vedo Ronny sulla panchina e poiché la mia pausa pranzo dura quanto voglio io (giacché fare il rappresentante di barattoli di marmellata ha anche questo vantaggio) decido di fermarmi un po’ con lui. “Ronny!” gli urlo, avvicinandomi alla panchina. “Mitch!” mi risponde Ronny, facendomi un po’ di spazio accanto a lui. Meno male che ho imparato a non fare troppo lo schizzinoso, vivendo soprattutto per strada a causa del mio lavoro, altrimenti sedere dove fino a un attimo prima c’erano resti di burritos e hamburger non sarebbe stato igienico per i miei calzoni color sabbia. Così ho poggiato il Santa Monica Mirror, appena acquistato alla macchinetta L.A. Press, sulla panchina e mi sono seduto. Ronny mi omaggia di uno dei suoi sorrisi più sinceri e mi chiede come va. “Non c’è male” rispondo “e a te?”. “C’è il sole, la pipa è piena e ho appena fatto un lauto pranzo. Che voglio di più!” Un auto sgomma all’incrocio e Ronny fa la faccia contrariata e comincia: “Sempre di corsa, la gente… Che poi, dove va? Le cose vanno come devono andare: sei in ritardo? Ci sarà un motivo. Tu non lo sai, ma un motivo c’è! E deve essere anche un buon motivo, perché la tua vita cambierà…” “Sei sul filosofico, stamattina.” “Maaah! Oggi… ecco, guarda quella dell’altro marciapiede” e mi indica una donna sulla 50ina con una paio di zatteroni alti 20 centimetri e una parrucca rosso fuoco, “ti pare normale quella? No! Se poi cade…” La donna barcolla per un attimo, cerca di afferrarsi all’uomo che gli passa accanto e cade. “Portassi jella?!” dico a Ronny. “Ma quale jella! È normale che a quell’età non ti puoi reggere in piedi su scarpe come quelle! Il mondo è sbagliato, caro Mitch! È tutto sottosopra! Ti faccio un esempio: conosci la storia di Learco Orsini?” Ed è a questo punto che mi racconta la storia che volevo condividere con voi. Se avete voglia e qualche minuto di tempo, ve la racconto. Learco Orsini era figlio di Werter Orsini e di Janet Blakey, nato e cresciuto a Dallas, come i genitori. Werter, anche lui cresciuto a Dallas, era figlio di Learco Orsini – il senior, arrivato da Novafeltria, in Italia, nel primo decennio del secolo scorso. Learco senior aveva saputo della bomba atomica quando ormai si considerava americano a tutti gli effetti, perché l’America l’aveva accolto, gli aveva dato un lavoro, fatto dimenticare -forse- le sue colline romagnole. A Quinlan, pochi kilometri dal lago di Tawakoni e da Waco Bay, aveva conosciuto Wilma Sergenti, figlia di immigrati come lui, emiliana (a Learco non gli interessava che non fosse romagnola: con quegli occhi poteva essere pure prussiana!) e dell’età giusta per metter su una bella famiglia all’italiana. Nonostante i buoni propositi di entrambi, dal matrimonio era venuto solo Werter, per motivi che nessuno seppe mai veramente. Ci furono molte dicerie e indiscrezioni, specie sulle prestazioni di Werter, tanto che dopo qualche anno la famiglia si trasferì a Dallas, lontano da tutto e da tutti. Il lavoro di Werter ingranò bene e Learco junior poté crescere agiatamente, frequentare buone scuole (anche se non le migliori) e avere un giro di amici tranquilli e sempre con qualche dollaro in tasca come lui. “Questa è una bella storia. Dove sta il mondo sottosopra?” gli chiedo. “E infatti è proprio qui che comincia a sgretolarsi tutto” risponde Ronny. Il crollo iniziò quando Werter e Wilma morirono a distanza di poco tempo, quando Learco aveva all’incirca 40 anni, continuò a raccontare Ronny. Werter aveva un bel negozio di statuine di gesso che produceva lui personalmente, facendole a mano nel retrobottega, dove aveva anche un bel forno per ceramica che affittava ad ore a chiunque ne avesse bisogno. “Anche Learco… “ riprese Ronny. L’interruppi perché era da un po’ che volevo chiederglielo: “Ma lo chiamavano proprio così: Learco, il figlio? Cioè, voglio dire, non è un nome comune qui… “ Ronny fece un mezzo inchino ad una ragazza che, passando, gli aveva sorriso. Poi tornò a me. “Certo che no! Tutti lo conoscevano come Lemmy, forse a causa di quel film con Lemmy Caution, l’investigatore privato. Learco, dicevo… “ “Lemmy, vuoi dire… Mi si appiccica il cervello solo a sentirlo quel nome… “ “Ok. Lemmy… “ E mi racconta di come Lemmy aveva dilapidato il patrimonio di famiglia in poco tempo. In effetti modellare e muoversi tra le statuine di gesso e ceramica che il padre gli aveva lasciato in eredità come lavoro non aveva motivato Lemmy a fare salti di gioia. “Vendere souvenir e bomboniere non faceva per lui, diciamo la verità. E poi per gli affari bisogna esserci portati. Lemmy, invece… bah, lasciamo stare! Pian piano nessuno cominciò a pagare l’uso del forno con la scusa che gli affari gli andavano male. La qualità delle sue statuine, poi, non era nemmeno lontanamente simile a quella del padre; così che Lemmy decise di non produrle più da sé ma di acquistarle da altri.” Ma in tutti questi passaggi, le spese diventarono ben presto più degli incassi e il conto in banca cominciò a soffrire. “Ora, non so se tu conosci Jeffrey Duck…” dice Ronny. “Chi è che non conosce Jeffrey la Papera! Lo strozzino! Aspetta… mi vuoi dire che Lemmy si rivolse a lui?” “Essì, andò proprio così. Cioè: non subito ma… fammela raccontare come la so!” Ronny si stava accalorando: era meglio lasciarlo andare alla sua velocità. “Bisognava pagare i fornitori, le bollette elettriche, mantenere la famiglia… e ti assicuro che Emily non aveva proprio la mano della donna di casa.” “Ora chi è Emily?” lo blocco. “Hai ragione, non te ne ho parlato. Emily era la moglie di Lemmy. O meglio: era la donna che sposò Lemmy quando ancora Lemmy era il figlio, e soprattutto l’erede, di Werter. Non so se mi sono spiegato…” “Beh, sì, certo. Diciamo che Lemmy sposò Emily, ma che Emily sposò i soldi di Werter.” “Vedo che sei sveglio, Mitch!” “Messa così non ci vuole molto a capire.” Ronny si lanciò in tutta una serie di storie e storielle su Emily, sul suo amore per le cose belle e costose, per le feste di un certo livello e per i ragazzoni muscolosi. “Ma avrà avuto almeno 50 anni a quel tempo!” dissi, intuendo comunque l’andazzo della storia. “Certo! Ma Emily sapeva come spargere miele vicino a lei. Peccato, però, che le api che le ronzavano attorno, non erano della migliore qualità. E una di queste fu proprio Jeffrey la Papera.” “Quindi Lemmy si rivolse a lui per pagare i debiti?” “No! Almeno: all’inizio no, fu Emily che si faceva mantenere gli sfizi e gli sfarzi da Jeffrey ma coi soldi di Lemmy.” “No, aspetta, qui non ci arrivo…” “Per questo ti dicevo che il mondo va alla rovescia!” E inizia a raccontare di come Emily frequentasse locali notturni con Jeffrey facendo mettere tutto in conto al marito il quale, naturalmente, non ne sapeva niente. “E come mai i locali mettevano in conto a uno che non avevano mai visto né sentito? Non ha senso?!” “Perché c’era Jeffrey! E quando Emily diceva: segna a nome di Lemmy, e vicino aveva la Papera, era come una garanzia per loro.” Finché un giorno i conti da saldare cominciarono ad essere pesanti e qualcuno volle sapere chi fosse e dove abitasse questo Lemmy Orsini. “E qualcuno andò a trovarlo…” dico. “Esatto. Avresti dovuto vedere la faccia di Lemmy quando si presentò in negozio un tipo con una giacca troppo gonfia sotto l’ascella e la mano troppo grossa per essere uno che maneggia statuine in gesso. Lui dapprincipio non ci capì niente di quello che l’uomo gli stava raccontando, e come poteva! ma poi gli si accese una lampadina e gli si spense la voglia di ridere.” Così Lemmy chiese qualche giorno per capire cosa fare e andò a parlare con Emily. La quale non gli diede tante spiegazioni, ma disse semplicemente: “C’è da pagare, e se non hai i soldi è meglio che te li fai dare da qualcuno.” A questo punto la stessa Emily tirò fuori il nome di Jeffrey Duck e ci fu la quadratura del cerchio. La vendita del negozio bastò a malapena per pagare i conti dei locali di Emily, gli interessi della Papera e i debiti dell’ormai moribonda attività di statuine in gesso. “E ora che fine ha fatto Lemmy?” chiedo. Ronny si accende la pipa e fa un paio di tiri. “Lemmy è morto, 3 o 4 anni fa. L’ho incontrato qualche volta fuori dai supermercati a raccattare qualcosa da mangiare e soprattutto da bere. Ho sempre detto che puoi mendicare e dormire sotto i ponti, ma bere: mai! Ti toglie l’onore e la rispettabilità!” e si volta a farmi uno dei suoi sguardi pieni di dignità. “E Emily?” “Emily ebbe ancora un paio di anni di buono, se capisci quello che voglio dire. Fece coppia fissa con la Papera ancora un po’ dopo il fatto di Lemmy; poi Jeffrey la passò ad un suo scagnozzo che stava facendo carriera e alla fine sparì dalla circolazione. Pare che anche lei tiri a vivere da qualche parte vicino a Santa Monica.” Ronny si poggia soddisfatto alla spalliera della panchina. Io guardo l’orologio e penso sia l’ora di riprendere il mio giro coi barattoli della marmellata. Ho solo un ultimo dubbio. “Scusa, Ronny, ma tu come fai a sapere tutte queste cose, fin nei minimi dettagli…” “Non le so, le immagino. Ma se le cose sono andate così è una bella storia, vero?” e mi sorride soddisfatto!