Qui ed ora Scrivo queste note per rabbia e con rabbia. Non una rabbia improvvisa e immediata, ma una rabbia meditata. La rabbia di chi vive in una società dove, ormai da tempo, si è prodotta una ferita che via via si è cronicizzata. Questa ferita si chiama: il partito preso. O, meglio detto, il prosciutto sugli occhi. Sì, è vero che il mondo è sempre stato così, dai tempi di Dante Alighieri con i guelfi e i ghibellini, e anche prima. Ma questo non vuol dire che sia giusto e normale così. La realtà non è più indispensabile per emettere un giudizio, perché basta accodarsi al proprio gruppo (spesso: il proprio branco) per avere un’idea sulle cose. Io invece ho sempre voluto guardarla in faccia la realtà prima di giudicare. E se non ho potuto fare questo, non ho espresso il mio parere. D’altra parte il mio parere non conta per nessuno, non sposta di un nano millimetro l‘ago della bilancia della storia. Oggi alcune cose non si possono dire perché, citando Jannacci e Dario Fo: sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male a Re. Fa male al Re sentirsi dire che le due tredicenni violentate a Caivano NON dovevano stare lì. Che qualunque animale femmina protegge i propri cuccioli, specie quando potrebbero essere in pericolo per la presenza di animali predatori (il ‘branco’ di altri minorenni che hanno usato la violenza). Due tredicenni non hanno il diritto di andare in giro a fare quello che vogliono, come non ce l’ha il branco di altri minorenni. Perché il mondo non è quello che dipingiamo: “come dovrebbe essere”, ma è “come è nella realtà”. È colpa delle bambine se sono state violentate? Certo che no! È colpa invece della nostra società, che non dice alle mamme e ai papà delle bambine che non le si possono abbandonare a se stesse. E non dice alle mamme e ai papà del branco violentatore che devono controllare i propri figli. Eh… , si dice, ma quella è una situazione di degrado… A maggior ragione due bambine non si lasciano sole in una ‘situazione di degrado’. Non dire a due bambine che là fuori ci sono dei pericoli, e che dai pericoli ci si difende anzitutto non andando là fuori e che, se proprio ci si deve andare, bisogna evitare ogni possibile avventatezza, vuol dire condannarle ad essere marchiate, psicologicamente e fisicamente, per tutta la vita. Lo scrivo di nuovo: il mondo non è quello che dipingiamo: “come dovrebbe essere”, ma è “come è nella realtà”. Anche a me piacerebbe poter vivere nel giardino dell’Eden, dove passeggiare tranquillamente e conversare amabilmente con tutti quelli che incontro. Ma io ho paura, a 63 anni! a passare da una particolare strada per tornare a casa se sono passate le 19.30, perché a quell’ora quella particolare strada diventa campo esclusivo di due bande di violenti che un giorno sì e l’altro pure, si affrontano con coltelli e cocci di bottiglia anche solo per stabilire chi deve sputare a terra e chi no. E infatti non ci passo. Forse che dico: “ma io ho il diritto a passare, per non allungare di 10 minuti il cammino verso casa!”?. No. Semplicemente non ci passo perché la realtà è quella che è. E non voglio finire in ospedale (se mi va bene) solo per poter poi dire: ma io devo essere libero di fare quello che voglio. L’erba voglio esiste solo nel giardino del Re. E non bisogna far piangere il Re. E allora: che il Re si tenga il suo giardino, che io mi tengo la mia vita. E quando avrete costruito un mondo perfetto, chiamatemi, se non sarò già passato a miglior vita.