IN CASTIGO
Il mare ostentava tutta la sua serenità. Era piatto, quasi uniforme. Al largo le vele facevano fatica a spingere vigorose imbarcazioni su cui erano adagiati pensieri annoiati dal susseguirsi di giornate sempre uguali a se stesse ed in cerca di esperienze estreme. Il vento non voleva accontentarli, non era prevista nessuna tempesta. Sulla riva un pullulare di costumi screziati, allegri, mescolati ai venditori ambulanti di varie nazionalità, ricoprivano ogni angolo. La spiaggia aveva tutto l’aspetto di un formicaio profumato di crema solare. Risate fragorose di donne un po’ abbondanti si sovrapponevano ai pianti di bambini capricciosi, figli di genitori assenti e perennemente bruciati dai sensi di colpa. In lontananza, ma non troppo, un bar offriva ristoro nelle ore più calde e lanciava musica senza tregua, così da rinfrancare lo spirito dei bagnanti. Gli uomini erano spesso indaffarati in attività che prendevano molto sul serio: in primo luogo il gioco delle bocce. Al tramonto inevitabilmente entravano in farmacia rossi come peperoni per aver sostato troppo sotto il Sole, la canicola del primo pomeriggio non perdona. In quel disordine ordinato da regole che si erano sedimentate di stagione in stagione, vi erano momenti in cui tutto evaporava per lasciare posto a sguardi furtivi e languidi. Marco era seduto sul bordo del muretto che delimitava il confine con la strada. La vide mentre si spalmava con molta cura un unguento per proteggere la pelle: prima le gambe, poi le braccia, il collo ed il seno, che si mostrava con discrezione e faceva risvegliare tutte le fantasie più sensuali, una alla volta, senza lasciare via di scampo. Marco prese l’iniziativa, non poteva sottrarsi all’attrazione che sentiva. Si mosse come fa il gatto quando cerca di acchiappare il topo. Girando un po’ intorno con passo leggero, le sue impronte sulla sabbia indicavano un percorso incerto, titubante. Giunse, dopo mille giravolte, poco distante dal suo ombrellone. “Bravo, e adesso cosa le dico?” Pensò. “Non sono certo uno spavaldo”. Ma era altrettanto certo che se non avesse fatto qualcosa sarebbe arrivata l’ora di cena e lei avrebbe abbandonato il lettino su cui aveva disteso la sua bellezza leggermente ambrata. “Ciao” “Che banale! Del resto cosa dire ad una sconosciuta, si comincia dall’inizio e l’inizio è un saluto”. “Ciao” Rispose Giulia. Marco si accorse che intorno a lui non c’era più nulla, in quel nulla si conobbero. La invitò in un locale in cui la musica rendeva vana ogni parola. Ma per loro non aveva molta importanza. Si salutarono con la promessa che si sarebbero rivisti.
Marco e Giulia passarono una settimana indimenticabile tra mare, aperitivi e nottate trascorse sotto lenzuola fradice d’amore dove non vi erano più persone ma figure evocanti mondi lontani. “Dobbiamo rientrare”. Disse Marco, stringendola fino a toglierle il respiro. Giulia ebbe un attimo di esitazione… “Ti amo”. Sussurrò, quasi intimorita dal forte sentimento che la stava travolgendo fino a restare immobile, sgomenta davanti all’auto che l’avrebbe ricondotta tra le colline della sua terra. I loro paesi si trovavano in pedemontana, a non più di cento chilometri l’uno dall’altro. Continuare a frequentarsi non sarebbe stata un’ impresa titanica. Giulia gestiva un negozio ben avviato all’interno di un centro commerciale situato vicino alla grande città, che era anche capoluogo di provincia. Da tre anni viveva da sola. Era figlia unica, i genitori erano perennemente in apprensione, nell’ottica del “stai attenta, non si sa mai”.
Giulia e Marco trascorrevano ogni attimo insieme, a parte quando Marco, direttore della più importante agenzia assicurativa della zona, doveva assentarsi per raggiungere la sede centrale a Milano. “Posso venire con te qualche volta?” “Sono noiose riunioni di lavoro con noiosi consulenti e operatori del settore. Ho i minuti contati. Magari potremmo organizzare una vacanza. Milano è indubbiamente attraente, non lo nego”. “Mi pare una buona idea”. Si baciarono intensamente. Si rintanarono in discoteca e poi a casa di Giulia. Marco abitava ancora nella casa paterna per indolenza, un’indolenza che nascondeva opportunismo. Disprezzava quelle quattro mura che lo avevano visto nascere.
DUE ANNI DOPO
Decisero di sposarsi e di avere finalmente la possibilità di condividere gioie e dolori. Marco era molto premuroso e attento, ma le sue continue assenze inquietavano Giulia che passava ore ed ore a meditare ed a costruire fantasmi. L’invisibile condizionava la sua comprensione del visibile, lo rendeva più faticoso e pesante. “Non è più lo stesso, non capisco… non capisco”. La nascita di un figlio la distrasse per un po’ dalla tristezza amara costruita sul filo di una menzogna, intuita e rifiutata, nascosta nella nebbia che confonde linee e colori.
Era un venerdì di dicembre inoltrato, le foglie secche sparse sui marciapiedi si erano arrese di fronte al vento gelido dell’inverno. Marco rincasò tardi, aveva vagato a lungo prima di calpestare il viottolo del giardino. Giulia non c’era. Diede un pugno alla porta, ferendosi lievemente. Si versò del vino rosso e bevve, perso nella fuliggine che nel caminetto componeva profili inconsueti, privi di una logica. La magia di quella scena non fu sufficiente a diminuire l’irritazione provocata dal suono ossessivo del ticchettio che scandiva i minuti, uno dopo l’altro senza tregua. Il corridoio si illuminò interrompendo il brusio del fuoco. “Dove sei stata oggi?” “Come sempre al lavoro poi con Mauro sono andata dai miei genitori”. “Tua madre e tuo padre non sono una compagnia adatta a nostro figlio che deve crescere in un ambiente in cui non si parli una lingua ‘sporca’”. “Che cosa stai dicendo?” Le rispose con uno schiaffo. Il giorno dopo si presentò con un mazzo di rose rosse. Si inginocchiò con un gesto da operetta melodrammatica e glieli porse scusandosi. Le chiese comunque di diradare le visite ai suoceri. Lei accettò a malincuore. I suoi genitori l’avevano spesso messa in guardia fin da quando si erano fidanzati ufficialmente, non tollerando quell’aria di superiorità che lui vestiva in ogni occasione.
QUATTRO ANNI DOPO
“Esco con gli amici, andiamo in birreria”. “A che ora ritorni?” “Presto, non ti preoccupare”. Non era preoccupata, a qualche ora sarebbe ricomparso, nonostante non avesse più interesse per lei ed il suo desiderio fosse svanito in una bolla di fugaci penetrazioni che non le portavano alcun piacere. Al terzo rintocco del campanile, Marco varcò la soglia, era molto eccitato. La vide sotto un lenzuolo morbido, setoso. Senza dire una parola le aprì le gambe e la costrinse brutalmente ad avere un rapporto sessuale. Giulia urlava, piangeva. “Ti prego, smettila, mi fai male”. Si alzò al mattino con l’affanno di specchiarsi e di non riconoscersi.
Dopo aver lasciato Mauro all’asilo fece visita ai suoi genitori per avere conforto. Era sfigurata. “Mio Dio, cosa ti ha fatto questa volta?” Esclamò la madre. “Sta passando un brutto periodo. Capita a tutti”. “Certo, ma non tutti seviziano la propria moglie. Devi denunciarlo”. “Ora vado, altrimenti i clienti crederanno che sia morta”. Il tono era tra l’ironico e il disperato.
L’oscurità velata del vespro annunciò la chiusura delle serrande. Giulia salì in macchina, lesse i messaggi, uno era di Marco “Sono andato a prendere Mauro. Sorpresa”. La casa traboccava di fiori e di candele. Marco era ai fornelli e Mauro gli stava intorno con i suoi giocattoli. Le offrì un aperitivo, non uno qualsiasi, quello che lei preferiva tra tutti. Le prese le mani, si piegò davanti a lei. Piangeva come un bambino. Si scusò e le promise che quello che aveva fatto non sarebbe successo mai più. “Ti amo, ti amo, non scordarlo. Io non posso vivere senza di te”.
Mauro osservava quel mondo di violenze e di scuse continue senza comprenderne il significato. All’asilo era silenzioso, non partecipava alle attività come gli altri, spesso scappava rifugiandosi dalla maestra. “Signora, ha notato che suo figlio ha qualche problema, fa fatica a stare con gli altri bambini”. “Sì, è taciturno, poco incline alla gioia”. Giulia se ne andò con le lacrime agli occhi. Dalle finestre della sua casa poteva ammirare un parco giochi, dove i ragazzini, accompagnati dai genitori, cantavano allegramente le loro filastrocche, ogni tanto qualcuno cadeva dallo scivolo o da un altro attrezzo, con le ginocchia sbucciate ripartiva e ricominciava con le capriole. Amaramente rifletteva sulla sua malinconica esistenza. La paura e la solitudine la stavano consumando lentamente. Malediva la sua ignavia, la sua stupida speranza, rendendosi conto che stava camminando lungo il margine di un vuoto incolmabile. Eppure nel suo intimo, qualcosa era cambiato: ciò che aveva ritenuto impossibile si stava tramutando nella ricerca di una forza che era davanti a lei, in un altrove di cui non aveva avuto consapevolezza fino a quel momento.
Voleva uscire dalla trappola di quel matrimonio, ma non senza scoprire gli inganni in cui era vissuta. “Perché non posso seguirti quando vai in trasferta a Milano?” “Cosa dici, Mauro a chi lo lasci? Ed il negozio? Lo chiudi?” “Potrei portare Mauro dai miei e prendermi una pausa dal lavoro”. “Non se ne parla proprio, figuriamoci Mauro dai tuoi”. Concluse con una risata sarcastica. Giulia non proferì parola, ormai la sua rassegnazione si era dileguata nella visione di un futuro impossibile. Si rivolse ad un detective per farlo seguire. L’investigatore fece un’indagine meticolosa e gettò sulla sua scrivania le immagini che ritraevano Marco e la sua amante. La cruda realtà le fu posta innanzi con il tono sereno di chi è abituato alla sofferenza altrui, al punto da non farci più caso. Si incamminò verso il parcheggio. Una incantevole e calda luce faceva capolino sul viale principale della città, gli alberi si ergevano come se fossero i padroni della strada, una strada che sembrava correre veloce verso l’infinito. Era abbagliata dai rumori fragorosi dei mezzi che davanti ad un semaforo si erano magicamente fermati ad ascoltare il cuore di Giulia. Una donna si accorse di quel viso lacerato da un antico dolore. “Signora, ha bisogno d’aiuto?” Quella voce così tranquilla la rasserenò per un attimo. “No, grazie… sto bene… sono solo un po’ stanca”. “Vuole che l’accompagni da qualche parte?” “La ringrazio, non serve...”. Scomparve lasciando dietro di sé una delicata fragranza ed un pezzo della sua anima. Arrivò al parcheggio, prese l’auto e si recò all’asilo. La rete verde a maglie larghe la separava dal suo piccino. Rimase lì, aggrappata, vedeva Mauro, da solo, stava in disparte come fanno i cani randagi quando non vogliono essere toccati da nessuno e che nessuno tocca perché sono randagi. Suonò la campanella. Le insegnanti, come al solito, accompagnarono i bambini al cancello. Mauro corse verso Giulia sganciandosi dalla fila guidata dalla sorvegliante di turno. “Mamma, sei triste?” “No tesoro, sono solo stanca”. “Perché piangi?” “Piango di gioia, perché posso cullarti come quando eri in fasce”. “Perché papà non c’è?” “Sai che viene sempre la mamma a prenderti. Che cosa hai imparato oggi?” “Niente” “Come niente?” “La maestra mi ha messo in castigo perché non volevo fare il disegno della mia mamma e del mio papà”. “Perché non ci hai disegnato?” “Non sapevo cosa disegnare. Mamma, non voglio più andare a scuola. Sono tutti cattivi”. “Non è vero, cerca di stare con loro vedrai che tutto passerà”. Mauro scoppiò a piangere. “Non mi piacciono, non voglio rivederli. Voglio stare con te”.
Cenarono da soli, Marco era in ritardo. Giulia portò Mauro nel lettone, aveva bisogno di calore umano. Il suo sorriso l’aiutava a raccontare le fiabe per farlo addormentare, ma lui non riusciva ad abbassare le palpebre. “Un’altra mamma, ti prego”. “C’era una volta un gatto che aveva due baffoni enormi, si chiamava…” Si assopirono insieme, quasi nello stesso istante. I passi decisi e rumorosi di Marco la fecero sobbalzare, strinse al petto Mauro fingendo di dormire. La porta si aprì facendo trapelare un filo di luce coperto da una possente sagoma maschile. Sarebbe voluta precipitare nel pozzo profondo in cui si rifugiano le anime dannate in terra. Il pigiama che indossava era più grande di una taglia, glielo aveva regalato la sua amica di sempre per un compleanno qualsiasi prima che il matrimonio se la portasse via, lontano, lontano dai contatti di un tempo, dalle risate al bar di Gianni che preparava ogni sabato un buffet a sorpresa.
Lui la prese per i capelli, strattonandola e trascinandola. “Credi di essere furba? Oggi sono passato in negozio. Era chiuso. Dove sei andata?” Lei taceva e più taceva e più la colpiva senza pietà. Il suo pianto disperato si mescolava a quello di Mauro. Cadde a terra senza un lamento, sopra le gocce di sangue che sgorgavano dal naso e dalla bocca e, mentre attendeva il colpo di grazia, vide Marco allontanarsi, le sue scarpe, lucide, pulite, si spostarono verso la sedia sulla quale aveva lasciato gli abiti. Appoggiò le sue mani imbrattate sopra lo schienale. La osservò. “Ti amo, tu lo sai vero?” Fu distratto da una voce infantile. “Papà perché hai picchiato la mamma?” “Perché è stata cattiva. Mi ha detto una bugia”. “Io sono cattivo?” “No, tu sei buono”. “Allora non mi picchierai, vero?” “No, tu fai sempre quello che dico io”. Portò Giulia in bagno, la lavò, la mise a letto e scese in salotto dove un comodo divano lo accolse fino al risveglio.
Un’altra Luna si era adagiata sul suo volto tumefatto. All’alba la testa era frastornata, intorpidita, non riusciva a muoversi, le sembrava di avere sopra di sé un peso tale da impedirle di respirare, di pensare, di esistere. Il cuscino madido emanava un odore acre. Si toccava la fronte come quando da piccola faceva qualche marachella e non aveva il coraggio di dirlo. Telefonò ai suoi genitori per informarli che era esausta. Aveva bisogno di andare al pronto soccorso. “Chiama il 112, a Mauro baderemo noi…Per favore denuncialo”. I medici ed i paramedici quando l’esaminarono ebbero un attimo di scoramento. “Signora, lei deve fare denuncia”. “No, mi ucciderà, ne sono sicura”. Quando giunsero le forze dell’ordine, Giulia si rifiutò di parlare. “Signora, se fa così non possiamo aiutarla, dobbiamo comunque convocare suo marito in centrale”.
Giulia rientrò a casa, avrebbe voluto spiegare… spiegare cosa? Aveva paura di lui, delle sue mani, della sua ombra. Voleva la separazione e questo era tutto. Una poltrona l’avvolse tentando di consolarla. Nel buio la chiave girò nella toppa. Si avvicinò a lei senza svegliarla: “Non mi lascerai vero? Non puoi farlo”.
I Poliziotti lo avevano ascoltato e ammonito, poi lo aveano rispedito là, dove abitavano la sua rabbia ed il suo tormento. Non fece parola con Giulia di quella conversazione.
UN MESE DOPO
Giulia si recò da un avvocato per avviare la procedura di separazione. La lettera formale con la richiesta fu consegnata a Marco che la lesse con aria sprezzante. Ma quando la vide indaffarata ad impacchettare gli indumenti di Mauro, capì che avrebbe dovuto prendere sul serio la situazione. Attese le prime ore del mattino, si premurò di verificare che Mauro dormisse, prese un coltello e lo conficcò una, dieci, cento volte nel corpo di Giulia, sferrando ogni colpo con sempre maggiore efferatezza, guardandola dritto negli occhi e più la guardava più sentiva il bisogno di infierire “Non te ne andrai”. Invece se ne andò, senza valigie… all’obitorio.
Il funerale si svolse alla presenza di tutti coloro che l’avevano conosciuta e di tutti coloro che avrebbero voluto dimostrarle solidarietà.
Vicino all’angolo estremo del cimitero vi erano Mauro e la nonna. “Nonna, la mamma dov’è? E’ in castigo perché ha disubbidito?”