INGHIOTTITI DALLE TENEBRE

La sabbia era pulita e candida quando arrivò un’onda che travolse il corpo di Betty e lo sospinse verso la battigia in un punto in cui le rocce fermavano l’impeto del mare. Betty fu ritrovata due giorni dopo. La pelle era gonfia e violacea. Non aveva nulla con sé, solo pezzi stropicciati di un indumento dal tessuto pallido e macchiato. L’ispettore Brown l’analizzò minuziosamente con un tricorder e trasferì i dati alla Centrale. Fu così effettuata l’identificazione. L’ispettore capì immediatamente la gravità della situazione. Betty era una proprietà del Governo ed indagare sarebbe stato inutile.

Era stata generata, come tanti altri, al fine di ottenere dei Cyborg efficienti da impiegare nell’esplorazione della Galassia ed in campo militare. Questo ambizioso programma di sviluppo era stato cofinanziato dal Ministero della Difesa, dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Ricerca Biogenetica. L’opinione pubblica era divisa. I sostenitori manifestavano, con ardore e con ogni mezzo possibile, l’esigenza di sopportare qualche sacrificio al fine di porre le basi per un futuro in cui i sistemi planetari avrebbero potuto rifornire la Terra delle risorse che cominciavano a scarseggiare. I detrattori, che ritenevano immorale creare individui da trasformare in schiavi del progresso, erano, tuttavia, la maggioranza. Perciò la sperimentazione fu avviata informando esclusivamente le strutture interessate. I figli della scienza, piccoli frutti acerbi consegnati all’oscurità di un mondo assente, venivano allevati in un collegio dove conducevano una vita senza contatti con la società. Il personale si prodigava per loro. Si occupava dei loro desideri e della loro istruzione. Studiare era un’attività che serviva per l’età matura quando tutte le loro potenzialità sarebbero state incrementate a dismisura con sofisticati dispositivi da impiantare in diverse parti del corpo, in particolare nel cervello. Il giardino, che intorno all’edificio sprizzava allegria e spensieratezza, era ben sorvegliato. Oltre il maestoso cancello in ferro battuto, situato alla fine di un viottolo contornato da rose rosse e gialle, nessuno si era mai spinto. Betty aveva un’innata curiosità. Dall’imponente costruzione che la ospitava scrutava gli alberi sempreverdi e i fiori che ogni primavera la sorprendevano per la loro bellezza e per il loro profumo. Non usciva mai da sola, non le era permesso senza autorizzazione e senza un androide sorvegliante. I suoi compagni non si ponevano molte domande, erano felici di far parte di una casta di eletti. Non prendevano sul serio le sue proteste, soprattutto quando chiedeva di assaporare l’armonia del mondo esterno. Tra gli studenti non vi era uno spirito solidale, erano educati all’egocentrismo e alla competizione, pertanto non si facevano scrupolo a riferire ai responsabili della struttura le confidenze dei loro colleghi e godevano quando Betty era ripresa severamente per le sue intemperanze. Ma lei non si dava per vinta, voleva conoscere la strada che intravvedeva dietro l’ultima ombrosa quercia. Aveva quindici anni quando tentò la prima fuga verso il confine del caseggiato. Le sentinelle la intercettarono facilmente e la riportarono indietro. La punizione fu esemplare. Venne segregata in una piccola cella per una settimana. L’umiliazione non la fece desistere dal suo intento.

Nel pozzo senza fondo della sua solitudine intuì che aveva bisogno di un alleato. Fu così che Betty si avvicinò al suo sorvegliante, cercando di disorientarlo per capire la logica del suo agire. Lo aveva soprannominato Amadeus, il suo vero nome era PQ42. Quando ebbero il nulla osta per passeggiare nel parco, in un cantuccio al riparo da occhi indiscreti, lei gli prese una mano e con sguardo supplice sfiorò le labbra sulla sua fronte. “Fammi volare via da questa prigione, anche solo per qualche ora. Voglio incontrare gli altri esseri umani.” “Il mio compito è proprio quello di evitare che qualcuno scappi, e poi… poi...le conseguenze sarebbero terribili. Se io ti aiutassi metterei in pericolo il progetto, la tua esistenza e la mia.” “Desidero solo conoscere ciò che sta al di fuori di queste pareti affrescate da un artista a me ignoto.” La riportò all’interno, salirono insieme i gradini, passo dopo passo giunsero nella sala mensa. Il direttore la rimproverò per il ritardo. Intanto il pensiero di Betty si concentrava sugli altri, seduti in silenzio. Non provava nessuna compassione per quegli arroganti e vili. Si sentiva premere contro la loro estraneità.

Le primavere, che cadevano dal cielo, erano fulmini, colpi sordi e dolorosi inferti dalle stagioni che trascorrevano inesorabili e che l’avrebbero resa ben presto idonea alla mutazione, costringendola ad abbracciare un destino sconosciuto. La sofferenza, l’abitudine alla sofferenza, la stava travolgendo e i sogni erano incubi in cui tutto svaniva tra le sue dita. Amadeus ogni tanto la consolava dipingendola alla stregua di una pioniera alla quale era stata affidata una missione da compiere. “Io, però, non ho deciso nulla.” Rispondeva Betty indispettita. Con sempre maggiore assiduità voleva essere accompagnata vicino al recinto dove la siepe lasciava filtrare qualche brandello di esperienze lontane e fugaci. Da lì poteva vagheggiare con la mente, afferrare un frammento di quello che le era negato. Si figurava una città senza nome, senza una fisionomia precisa, la riempiva di volti allegri, preoccupati o incerti, che l’attraversavano impegnati a rincorrere le loro storie, a rivivere i loro momenti di gioia, a piangere le loro tristezze. “Non farti del male, non puoi andartene. Rassegnati.” “Amadeus, io non riesco a restare indifferente alle ombre che mi stanno martoriando. Sto perdendo me stessa, vorrei annullare questo luogo e salvarmi dall’oblio. Devo trovare il modo di interagire con la diversità, con il lessico quotidiano della gente, quella gente che forse non apprezza la normalità di una qualunque giornata. Spero tu mi capisca.” La voce vibrante con la quale esprimeva la sua inquietudine, il suo corpo consumato da sensazioni profonde e vissute con rammarico e tormento finirono per far avvertire ad Amadeus un’attrazione istintiva. Qualcosa stava succedendo alle sue connessioni neurali. Ubbidienza e rigore erano sempre state le sue parole d’ordine. Ora era confuso, frastornato. Una sera si diedero appuntamento per rovistare nel database storico. Stavano commettendo una grave infrazione. Visionarono con attenzione numerose testimonianze con la passione dei neofiti. Lo stupore prese il posto della paura: la storia dell’umanità, delle sue conquiste e delle sue sconfitte li affascinava. Scoprirono anche la Risoluzione Internazionale n. 81 del 2096, in base alla quale gli Stati firmatari avrebbero potuto procedere sulla strada della manipolazione genetica purché fossero rispettati i diritti inalienabili che da secoli erano alla base della convivenza civile. Per un attimo il gelo spense il loro entusiasmo. “Sono stordita dall’eco che rimbomba in me per un sapere celato in uno stanzone nero, scuro, dimenticato. Devo inventarmi qualcosa per correre più veloce di chi mi vuole ingiustamente reclusa.” “Tu sei un’ingenua se credi che il Governo ti consenta di aprire un varco. Questa è la casa di quelli che non ci sono. Là fuori tu sei nessuno.” Replicò Amadeus con un tono amaro simile ad un lamento. Vulnerabile e incapace di frenare il suo trasporto per quella ragazza dai biondi capelli, stava capitolando. Non aveva più difese. Ormai complici e colpevoli di aver frugato nell’archivio, Betty e Amadeus iniziarono a ragionare, senza alcuna precauzione, sulla fattibilità di un salto nel vuoto, fuori dal labirinto informe di regole assurde e dalla palude in cui Betty annaspava per non sprofondare nell’abisso. Era diventato quasi un gioco. Si divertivano a fare ipotesi su ipotesi. Finchè non osarono spingersi oltre. Durante una delle loro camminate si accorsero che sul lato in cui la siepe era più intricata le sentinelle pattugliavano con minore frequenza. Attesero il momento giusto, si scambiarono un cenno d’intesa, scavalcarono il muro e presero il sentiero che li avrebbe resi liberi. Dopo aver vagato senza una meta per ore, incrociarono una città. Un via vai di persone dall’aspetto anonimo li guardava con sospetto: Betty era vestita con una tuta grigia simile a quelle degli astronauti ed era insieme ad un androide. Si infilarono in un locale in cui la musica spadroneggiava. Una luce fioca illuminava i bicchieri dei pochi clienti. Si sedettero. Un cameriere li vide e si recò da loro per l’ordinazione. Non sapevano cosa dire. Compresero che sarebbe stato meglio abbandonare quel posto. Il tramonto non si fece attendere, li sorprese mentre ammiravano le insegne variopinte e contemplavano i palazzi animati da musica e risate. “Amadeus, siamo tra i vivi. Qui lo spazio ed il tempo hanno finalmente senso.” “Non per me, io non sono capace di definire i concetti di tempo e spazio perché non ne sono cosciente. Non ho una chiara percezione dell’esistente se non in relazione al mio scopo.” “Non importa, imparerai il significato di finito e di infinito.” “Sai che ci costerà molto caro quello che stiamo facendo.” “Sì, eppure non ho rimorsi. E’ il mio amor proprio che mi lancia messaggi chiari. Ho aperto una breccia nel sistema. Pagherò questa ribellione e, purtroppo, tu ne subirai i contraccolpi.” “Non pensare a me, io non ho un prima e non ho un dopo, io dipendo dall’organizzazione che mi ha congegnato. Ho scelto di trasgredire e ora sono qui con te.” “Allora muoviamoci e cerchiamo di cogliere a piene mani quello che questo Universo ci presenta.” Il loro girovagare li portò a fluttuare in un balenio di sentimenti contrastanti, di suoni e colori inconsueti e a frequentare luoghi affollati o solitari, finché una notte furono inghiottiti dalle tenebre.

Quando fu notificata la morte di Betty, nessuno pianse. Si diffuse l’idea che il Direttore ne avesse ordinato l’esecuzione. Ma erano solo chiacchiere che i ragazzi sussurravano tra di loro, soprattutto dopo aver riconosciuto in un automa addetto alle gestione dei rifiuti, Amadeus.