JASMYN

Una mattina di novembre grigia e nebbiosa fu ritrovato, poco distante dai casolari abitati da braccianti stagionali e operai, il cadavere di una giovane donna, sepolto e avviluppato da un sacco della spazzatura, nero come la pece, logoro e strappato. La pelle ormai a brandelli rendeva ancora più raccapricciante lo stato in cui si trovava quel corpo dilaniato dalle ingiurie degli uomini e dalla decomposizione che aveva risparmiato i lineamenti vaghi di quel volto sfigurato e qualche lembo di un abito dal colore rosso intenso. Quella donna si chiamava Jasmyn Hussain.

Gli Hussain erano scappati dal Pakistan in cerca di fortuna e tranquillità, come tutti i migranti. Jasmyn era stata l’ultima ad arrivare in Italia, nella terra promessa, nella terra in cui molti connazionali avevano stabilito la loro residenza. Jasmyn aveva appena sette anni e, come recita la legge italiana, fu iscritta alla Scuola Primaria. “Buongiorno bambini, Jasmyn è una nuova compagna di classe”. “Vai a sederti cara”. Aggiunse la maestra.

“Che cosa dice, non capisco. Che bella questa scuola, ci sono tante bambine. Perché mi guardano così? E adesso cosa faccio?”

La maestra, elegante ed energica, la accompagnò al banco, le diede un quaderno, una penna ed una matita.

“Che bello! Posso imparare a leggere e a scrivere, così mio fratello non mi prenderà più in giro...”

La scuola si trovava poco distante dalla piazza del paese. Per raggiungerla Jasmyn percorreva una piccola strada alberata ricoperta di ghiaia grigio perla. Durante l’anno scolastico, uno strato sottile di brina copriva la campagna deserta fino alla linea dell’orizzonte, il Sole alto e opaco abbracciava la Terra per qualche ora, riscaldandola lievemente fino all’arrivo della bella stagione, quando un turbinio di colori sarebbe esploso e le vacanze sarebbero presto arrivate.

Il padre aveva trovato lavoro in una fabbrica di serramenti. Non fu difficile far assumere anche il figlio, vista la fame di manodopera delle aziende di quella regione. La famiglia Hussain era ben voluta da tutti gli abitanti del piccolo paese in cui risiedevano, almeno fino a quando non si accorsero che Jasmyn era spesso obbligata a dormire sul marciapiede. In silenzio si accucciava, attendendo l’aurora luminosa di un altro giorno, passato ad ascoltare il paesaggio invisibile della sua anima frantumata dalla violenza di un mondo che lei non poteva più capire. Ben presto infatti il Pakistan si tramutò in un fantasma dal quale sarebbe voluta correre lontano, invece il Pakistan viveva con lei, ben radicato tra le mura domestiche con le sue regole e i suoi riti assurdi per una ragazzina che, come lei, stava incominciando ad assaporare l’ombra di una nuova libertà, appena nata, sfiorata con timore.

Concluso il Primo Ciclo di Istruzione con un esame brillante, avrebbe voluto frequentare la scuola superiore, ma i genitori le impedirono di iscriversi, sebbene non avesse l’età per abbandonare legalmente il percorso scolastico. Le istituzioni non si mossero. Lei pagò quella indifferenza, scivolando nella trappola di un ambiente poco incline ai cambiamenti e ostile anche a causa del suo atteggiamento via via sempre più ribelle, scontroso. “Voglio uscire con le mie amiche”. “Tu non sei come loro, tu sei musulmana, devi accettare questo fatto. Tu non sarai mai come loro”

Jasmyn conobbe Marco una sera d’estate, il caldo era soffocante, non vi era un filo di vento, l’umidità dell’aria lasciava spazio ad un unico desiderio, quello di rintanarsi in un locale fresco. Sotto la pergola della gelateria si respirava un po’ meglio e fu proprio lì che si incontrarono. Fu il calore di un momento. “Dove sei stata? Chi hai visto? Perché sei rientrata così tardi?” “Sono le nove di sera, papà, non è tardi”. “Non rispondermi in questo modo. Ricordati che hai 17 anni, sono io a decidere quello che puoi o non puoi fare. Vattene fuori. Resterai incollata al marciapiede e domani mattina rientrerai senza lamentarti”. Le disse il padre in collera che non l’aveva picchiata duramente solo perché non voleva sfigurarla. Ancora un po’ di pazienza, presto l’avrebbe costretta a ritornare in Pakistan per sposare il cugino Akim.

“Perché? Perché? Perché non vuoi capire che non puoi trattarmi così... accidenti...”

E mentre piangeva, scrutava quella linea invisibile che separava il dentro dal fuori, vagheggiando mondi lontani in cui rifugiarsi e perdersi. Il futuro le appariva tetro, si paragonava ad un albero malato da divellere per essere usato come legna da ardere. L’estraneità di quel dentro, a cui non apparteneva più, si era consolidata, scoprendo giorno dopo giorno, anno dopo anno ciò che le stavano negando.

Nei mesi seguenti riuscì a vedere il suo Marco in gran segreto. Jasmyn non portava il velo quando era con lui. I suoi occhi erano marroni, caldi, in qualche momento sfuggenti, intriganti; le sue labbra rosse, parevano essere state disegnate da un pittore nel tentativo di risvegliare tutti insieme i sogni più nascosti, avvolti da un pudore quasi infantile. “Ti amo…” La frase rimase sospesa mentre la baciava. “Ho paura … Mio padre non mi lascia in pace, mio fratello e mia madre mi minacciano. Ogni volta che rientro… non so se mi faranno dormire all’aperto o se mi chiuderanno per sempre in cantina”. “Deve esserci una soluzione, chiediamo consiglio alle associazioni antiviolenza”. Proprio in quel tardo pomeriggio, un amico del padre lo informò che Jasmyn si comportava come una sgualdrina. Il risultato di questa delazione: il pestaggio cui fu sottoposta. La picchiò finché non vide il suo sangue scorrere dalle ferite. I lamenti di dolore arrivarono fino ai caseggiati circostanti. Quella volta i vicini, preoccupati più che mai, non potevano restare insensibili a quei singhiozzi strozzati. Chiamarono le forze dell’ordine che trovarono Jasmyn seduta sul pavimento, muta, aveva le guance gonfie e la schiena, che si intravvedeva tra le pieghe del vestito strappato, riportava i segni di quel che era accaduto. Fu ricoverata, rimase in Ospedale per due settimane. Il padre fu denunciato e processato per direttissima, ma la condanna non lo tenne distante dalla figlia, attraverso la madre ed il fratello la insultava senza pietà. “Sei una donnaccia, una svergognata. Hai mandato dietro le sbarre nostro padre. Ci hai messo in cattiva luce anche in Pakistan. Abbiamo dovuto mettere da parte l’idea di darti in moglie ad Akim. Ricordati che noi ti abbiamo mantenuto e che si trattava di dimostrare gratitudine sposando tuo cugino”. “Ti sei dimenticato che Mio padre mi ha obbligato a dormire sul marciapiede e mi ha massacrato di botte?”

Jasmyn fu isolata dal mondo esterno. Marco, appena poteva, si recava sotto la finestra della sua camera in gran segreto per pianificare la fuga. “Non farti travolgere dal dolore e dalla paura, domani verrò a prenderti, costi quel che costi. Ho trovato un posto sicuro dove sarai al riparo dalla furia dei tuoi”. Un rumore cupo la fece sobbalzare. Erano i piedi scalzi della madre che producevano uno strano fruscio sulle scale. “Con chi stavi parlando? Non negare. Ti ho sentito”. La sua voce rimbombò nella camera. Prese Jasmyn per un braccio, facendola inginocchiare. Il pianto disperato di Jasmyn riempì l’aria avvilita, stanca di ascoltare la sua sofferenza e le sue lacrime.

“Perchè? Perché? Perché? Non ce la faccio più...”

In quel preciso istante, nonostante fosse al primo piano, scavalcò la finestra e con un salto finì per terra. Tutta dolorante scomparve inghiottita dalla foschia del primo mattino che la protesse mentre camminava in mezzo ai prati ancora brulli, incerti di fronte ad una primavera che non voleva arrivare. La madre diede l’allarme, furono immediatamente attivate le ricerche, ma di Jasmyn nessuna traccia, era stata inghiottita dal nulla. “Brutta bastarda, figlia ingrata, te la farò pagare”. Disse al figlio che tremava dalla rabbia. “Mamma, dobbiamo fare qualcosa, oramai tutti ridono di noi”.

UN ANNO DOPO

Marco e Jasmyn continuarono a vedersi, seppur con mille precauzioni. Il rifugio che l’aveva accolta era una casa famiglia per donne disperate, umiliate, maltrattate da uomini incapaci di vivere una relazione, gelosi o semplicemente stupidi. “Oggi è il tuo compleanno, ho un piccolo regalo per te”. Jasmyn aveva le lacrime agli occhi di fronte ad un mazzo di rose rosse ed una scatolina contenente un profumo, non uno qualsiasi, l’essenza era quella del gelsomino, Jasmyn portava il nome di quel magnifico fiore. “Quanto ti amo... grazie, io non so cosa dire…” “Non dire nulla, abbracciami”. E mentre la stringeva forte, sussurrò: “Dobbiamo andarcene, non ha senso restare qui, ora sei maggiorenne”. “Il problema sono i documenti. Mia madre li ha nascosti in camera sua”. “Andremo a prenderli insieme, andare da sola è troppo pericoloso”. “So che è pericoloso, ma non ho altra scelta. Se ti vedessero con me, tu saresti il primo bersaglio ed io il secondo… Non c’è speranza... Io li conosco”. “Ma Jasmyn...” “Facciamo così… io vado da loro questa sera verso le 20.30. Se non sono qui per le 22.30...”. Si interruppe.

La brezza leggera sembrava voler incoraggiare Jasmyn.

“… cosa farò quando mi troverò di fronte mia madre e mio fratello… non so… non so...”

Man mano che i passi sempre più incerti la conducevano verso il suo destino ed il mormorio dei suoi sentimenti risuonava in tutto il suo corpo, percepiva il sapore di una sofferenza amara che le impastava la bocca. Aprì la porta senza bussare, la madre ed il fratello stavano pregando. Volsero lo sguardo verso di lei, il rancore cieco si trasformò in odio, deformando i loro lineamenti già segnati dalla lunga attesa di una vendetta. “Che cosa sei venuta a fare?” “Sono qui per prendere i miei documenti”: “No, tu non ci lascerai di nuovo. Scordatelo!” Nel frattempo il fratello aveva chiuso la porta a chiave.

Jasmyn si girò verso le scale. “Cosa fai?” “Vado a prendere i miei documenti”. Fu un attimo. Madre e figlio con un cenno firmarono la sua condanna a morte. Fu scaraventata sulle piastrelle del salotto. Mentre cercava di rialzarsi, sentì intorno al collo qualcosa che le impediva di respirare. La sua vita finiva quella sera. Quel corpo martoriato era oramai incurante del mondo.

Marco, quando non vide arrivare Jasmyn all’ora concordata, si recò dai Carabinieri. Tremava e singhiozzava senza tregua mentre raccontava tutta la storia della sua amata. Squadre, formate anche da volontari, setacciarono tutte le zone in cui sarebbe stato possibile rinvenire indizi. Passarono le settimane, una dopo l’altra, senza fare progressi. Si era dileguata. Poi una pioggia torrenziale fece emergere quel sudario di plastica sepolto non lontano dall’abitazione degli Hussain. La madre ed il fratello nel frattempo erano fuggiti in Pakistan e nessuno li vide più.

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