NON L’AVRAI VINTA
Teresa viveva a ridosso della montagna, in un minuscolo paesino dove era ancora possibile ammirare in primavera le rondini che in stormo disegnavano spirali rasenti il campanile. Era un po’ scorbutica, amava il profumo del tramonto e l’aria autunnale che pareva volesse portarsela via, lontano. Lontano da dove? Lontano da quello spazio vuoto in cui era precipitata da quando veniva affidata ai nonni materni per periodi più o meno lunghi, rinchiudendola in una realtà in cui una sottile violenza la faceva strisciare tra le braccia sudate dello zio. Visse così la sua infanzia, appesa ad un filo, accumulando rancore nei confronti di una famiglia che la lasciava in balia degli eventi. La casa era circondata da un vigneto e da un grande orto. Nonna Margherita seminava, piantava e raccoglieva. Ogni tanto andavano insieme a mangiare il gelato al di là del ponte. Il fiume avanzava lento, separando il grumo di abitazioni desolate dal luccichio dei palazzi e dei viali illuminati. Era una festa di colori e di desideri inespressi. “Nonna, quando hai conosciuto il nonno?” “Tanti anni fa, ad una sagra. Non mi piaceva, ma i nostri genitori avevano in mente un altro progetto. Così mi ritrovai sposata con lui”. Un’ombra velò il sorriso di Margherita. “All’inizio fu molto difficile, poi l’abitudine ebbe il sopravvento”.
Al rientro Teresa, con il sapore del gelato ancora sulle labbra, seguiva il silenzio tetro della strada che l’avrebbe ricondotta tra le mani di un aspro destino. “Dai Teresina andiamo a giocare”. Quando le sue esili mani aprivano la porta di quella stanza, i sensi di colpa l’avvolgevano, riteneva di essere lei la causa di tutto perché stava zitta e non si ribellava. Dio l’avrebbe punita facendole scontare il suo peccato tra le fiamme dell’inferno. Il prete in Chiesa era stato chiaro e aveva spiegato molto bene cos’erano gli atti impuri. La prima confessione fu per lei un martirio, non potendo dire quello che le stava accadendo perché sicuramente non avrebbe avuto l’assoluzione. Una corazza finì per chiuderla in un mondo tutto suo. Quando poteva, andava sull’argine del fiume, che procedeva dolcemente verso il mare per ascoltare il suo perenne canto. Non aveva mai visto il mare, ne aveva sentito parlare in casa. Le immagini erano il frutto di descrizioni sgrammaticate di emigranti che avevano solcato in un interminabile viaggio le onde fino alla terra promessa. Nei loro racconti regnava la penombra, il silenzio, l’orrore del naufragio e della morte.
Aveva 14 anni quando si aprirono per Teresa le porte del cotonificio. Si svegliava alle quattro, beveva una tazza di latte. Poi si incamminava verso il sentiero in cui avrebbe incontrato tante come lei, forse più stanche di lei, forse più ferite, ognuna con la propria maschera, sotto la quale si potevano intravvedere le rughe profonde di una umanità dimenticata. L’edificio imponente, che le stava aspettando, rendeva tutto il resto insignificante, rumori spaventosi rimbombavano per 15 ore al giorno. Quelle che avevano più esperienza erano deformi a furia di piegarsi sul telaio ed immergere le mani nel liquido bollente utilizzato per districare i bozzoli del baco da seta.
La sirena segnava l’entrata al cotonificio: una fila ordinata raggiungeva le postazioni che sarebbero state abbandonate quando le tenebre avrebbero offuscato il cammino. Teresa non aveva timore, sembrava piuttosto spavalda. Invece era solo contenta di allontanarsi dal gorgoglio della roggia che fluiva borbottando come fa la polenta fumante nel paiolo.
Nel giorno del suo ventesimo compleanno i genitori le comunicarono che si sarebbe dovuta sposare presto. Avevano scelto per lei il figlio maggiore dei Pascal, Guido, che aveva una discreta autonomia finanziaria: era proprietario di 15 ettari di terreno. Le due famiglie si misero attorno ad un tavolo per discutere delle questioni finanziarie. Le donne stavano in disparte, non erano ammesse alla trattativa. “Mia figlia è un po’ selvatica, ma è una grande lavoratrice ed è in grado di leggere libri interi”. Precisò suo padre. “So che al Cotonificio si è distinta: non si è mai lagnata dell’orario o della fatica”. Rispose il futuro marito, interessato all’aspetto pratico e non certo a quello culturale. “Veniamo alla dote”. Incalzò un po’ ruvido il padre di Guido. “Su questo foglio ho elencato tutto quello che sarà vostro dopo il matrimonio”. Teresa osservava quella scena con l’animo frantumato, le spalle curve rassegnate la rendevano ancora indifesa. La madre, con un gesto affettuoso che non le era consueto, l’abbracciò. Lei sapeva quanto fosse dura essere povere in quegli anni. La sua storia, non scritta, si poteva leggere sul bastone appeso alla parete sopra la credenza. “Mamma, ti prego non lasciarmi andare”. “Non posso fare nulla. E’ tuo padre che decide”.
Il giorno del matrimonio la sposa indossava un abito bianco, cucito da lei stessa. Era come se le avessero scavato la fossa e lei ci avesse messo intorno i fiori per rendere meno aspro quel momento della sua vita. Sarebbe voluta fuggire dentro uno dei suoi libri, in in cui le parole rendono i rimorsi ed i rimpianti vani, inutili e fanno sprofondare le anime in un grazioso parco fatto per consolare e alleviare le pene.
Il corteo nuziale partì alle 10.00 di mattina e si diresse in Chiesa. Era un sabato di settembre. Fu accompagnata all’altare e consegnata come si fa con i pacchi davanti alla soglia delle abitazioni, nella speranza che vengano aperti e non ci siano reclami. Teresa si inginocchiò, abbassò le palpebre, pianse. Tutto da quel momento sarebbe cambiato.
Nella modesta camera riservata agli sposi dal suocero convivente, vi era un grande letto o almeno lei ebbe questa impressione. Guido si spogliò e si mosse verso Teresa che aveva ancora il velo, sotto il quale si potevano scorgere gli occhi intimoriti e le labbra tremanti. Le loro mani si toccarono. Teresa ebbe un sussulto. Il passato, le ingiurie subite si fecero spazio nella sua mente, rivide lo zio, il sudiciume, la vergogna e la paura di essere martoriata. Uscì e si precipitò dentro un armadio disperata perché ora era diverso, un uomo autorizzato dal matrimonio l’aveva rubata e rinchiusa in una prigione. Guido era furioso, gli venne il sangue alla testa, le sue vene si gonfiarono al punto da rendere il collo un insieme di rigagnoli neri. La prese per un braccio e la tirò fuori. La spinse bruscamente. Teresa urlava come se fosse al mattatoio. Si divincolava, ma la sua forza non fu sufficiente a respingere quella valanga che stava sopra di lei. All’alba, con l’abito da sposa sporco, si mosse verso lo specchio limpido e freddo, il volto era tumefatto.
Guido, come sempre, si recò nei campi di buonora. Le mucche trainavano faticosamente il carro su cui erano appoggiati gli attrezzi necessari per la raccolta dell’uva. Il vigneto distava un chilometro dal paese e copriva tutto il versante di una collina morenica, un regalo della natura. Ai lati dei filari le siepi si inerpicavano senza una regola: una ragnatela di pioppi, castagni, larici intrecciati in un groviglio che tentava di assumere una forma che ancora non c’era. Di fronte a tanta bellezza sarebbe stato impossibile non commuoversi, non per Guido che era concentrato sulla vendemmia di una distesa di grappoli rosso rubino. La cantina si sarebbe presto riempita di botti e poi di bottiglie ansimanti dalla brama di essere riempite e di spargere l’aroma fruttato nei bar e nelle locande della zona. Verso il vespro, il campanile assolveva con precisione il compito di scandire il ritmo millenario che tutti i contadini attendevano con la testa abbassata, arsi dal caldo e dalla falce e bruciati dal freddo. Guido da lontano scrutava con orgoglio la casa, la sua casa, quella che aveva edificato mattone su mattone e dove sarebbero cresciuti i suoi figli. Una collera improvvisa e prepotente verso Teresa lo fece sbottare. “Doveva capitare a me una stupida, stupida, stupida! Ma non l’avrà vinta!”
Teresa rimase incinta e cominciò a gonfiarsi, illudendosi di poter trovare una briciola di felicità. Nacque una bambina, un batuffolo che le diede la forza di accettare tutto, persino le nerbate, all’ombra di un sole per lei pallido inverno ed estate. Le sussurrava all’orecchio: “Gioia mia, non seguirai le mie orme, tu avrai un passo diverso e nessuno ti potrà fermare”. Invece non la vide crescere né sbocciare. Morì all’età di due anni, sotto i colpi di una polmonite fulminante. Al funerale poche persone, quelle poche che erano in grado di capire un sentimento così profondo come dover sganciare le corde della bara in cui avrebbe riposato per sempre l’innocenza. “Vorrei incontrare un venditore di libertà che mi aiuti a scivolare via”. Bisbigliò Teresa. “Non c’è, non esiste. Noi siamo state condannate senza appello. Sai cosa ti succederà? Sarai umiliata e pestata ogni santo giorno. Cerca di avere altri figli, forse loro ti salveranno”. Era la sua vicina, un’anziana signora, dolce e comprensiva che si muoveva dondolando come fanno gli storpi. “Anche tua suocera è venuta a mancare molto giovane”. “Nessuno in casa parla di lei e della sua morte”. “Fu recuperata dai Carabinieri in un fosso, respirava ancora, ma il suo era un sospiro insieme ad un lamento. Il suo spirito non era più ancorato alla terra, stava salendo verso il cielo al cospetto di Dio. Aveva rinunciato a combattere, perdendosi nei meandri dello sconforto e dell’amarezza”. Guido percorse velocemente la distanza tra lui e Teresa. “Hai chiacchierato abbastanza, muoviti”. “Vorrei restare ancora un po’ qui con la mia creatura”. “Non fare tante storie. Se è morta è a causa tua”. “Mia? Cosa avrei fatto?” “Il problema è che cosa non hai fatto”. Guido Aveva il cuore straziato perciò era stato ingiusto, ma con chi poteva prendersela? Teresa era lì, in quel cimitero, pieno di rimpianti e dispiaceri, tra gente che si è conosciuta e che è morta.
Per un po’ Guido la lasciò in pace, non perché avesse compassione per lei, ma perché era sconvolto da quello che era accaduto. Teresa passò le settimane seguenti in lacrime, mentre tutto scorreva monotono e ripetitivo. Era sfinita dalla spietata consapevolezza di essere ormai in fondo al pozzo.
Un sera si recò nella piazza del paese. Affascinata dal fruscio, ora calmo ora vivace, dei rami secchi sbatacchiati sulla strada dalla brezza novembrina che annunciava la pioggia, non si rese conto che aveva fatto tardi, troppo tardi. “Dove sei stata sgualdrina”. “Ho fatto una passeggiata”. “Le mogli per bene non escono da sole”. Guido si tolse la cinghia dei pantaloni e le diede una lezione esemplare. Si fermò solo quando la pelle si trasformò in ferite sanguinolente. Non servì a nulla, Teresa continuò ad uscire.
La neve, che aveva coperto la campagna, e gli alberi spogli e ghiacciati dipingevano un paesaggio fiabesco in cui cantare e brindare al nuovo anno. Quello sarebbe stato l’ultimo inverno dai Pascal. Erano trascorsi quattro anni dal matrimonio. Un martedì di febbraio fu condotta dal medico di famiglia, interpellato da Guido per una visita. La sentenza fu presto emessa, visti i comportamenti non consoni al ruolo di moglie, il manicomio avrebbe curato le sue devianze.
Si presentò a marzo, i bucaneve avevano invaso i campi che si stavano tingendo di verde. Aveva con sé un misero bagaglio. Lo psichiatra ebbe con lei una breve conversazione. Fu sufficiente per fargli scrivere la diagnosi: “Donna particolarmente silenziosa con atteggiamento ribelle”. Gli assistenti di turno la scortarono lungo un interminabile corridoio. “Dove mi portate?” “Prima di tutto ti dobbiamo lavare e rasare i capelli, poi andremo nella camerata dove resterai fino a che non ti sarà consentito passeggiare in giardino”. La lavarono con uno spruzzo che le avrebbe segnato la pelle, un’altra degente le tagliò i capelli. Non le lasciarono nulla, nemmeno l’anello nuziale. Tutti i suoi oggetti furono depositati in uno stanzone lurido pieno di valigie, abiti, occhiali. Era entrata nella discarica degli esseri umani. Vite inutili, ripudiate. Si sedette sopra un materasso sfondato nella parte centrale. I muri scrostati gridavano lo strazio e la sofferenza. “Sei arrivata oggi?” Si girò lentamente. Vide una ragazza che indossava un camicione stretto al punto da non potersi alzare. “Sì”. “Perché sei qui?” “Di preciso non lo so. Probabilmente perché non sono stata una brava moglie. E tu?” “Ho tradito mio marito”. “Hai figli?” “Sì due, un maschio e una femmina. E tu?” “Mia figlia è morta a due anni”.
Non avevano la forza per raccontare altro. Alle 20:00 la ragazza fu trasferita, mentre un carrello sudicio trasportava le pastiglie da somministrare con una puntualità da clessidra.
Teresa, dopo 60 giorni di terapia, era così intontita da non essere in grado di distinguere il giorno dalla notte. Spesso cadeva o si accasciava, e faceva i bisogni dove dormiva. L’infermiera per punizione la legava al letto sopra i suoi escrementi, ripetendole un ritornello minaccioso: “Stai attenta, prima o poi finirai nel reparto Inquiete”. Quando Teresa avvertiva l’odore acre del tabacco del direttore, aveva la sensazione di essere pungolata da duri stiletti mentre i brividi le scuotevano la schiena. Era il momento del rimprovero. Inesorabilmente veniva apostrofata con un tono perentorio: “Mi riferiscono che non ti comporti bene. Vedrai che quando smetterai, tutto andrà meglio”. Poi le scarpe nere si dirigevano, come al solito, verso le infermiere, alle quali dava istruzioni.
“Noi dobbiamo combattere per la sopravvivenza, fare tutto quello che ci chiedono, tacere e obbedire”. Accanto a lei, una magra e pallida figura, ricoverata da vent’anni, le mise una mano sulla fronte. Teresa tacque. Quel silenzio fu interrotto da un singhiozzo che le soffocò un urlo. “Se finisci nel reparto Inquiete difficilmente rivedrai il Sole”. “Che cosa succede lì dentro?” “Quel reparto è di fatto l’anticamera per l’elettroshock. Si tratta di uno stanzone in cui siamo nude e dove non ci sono servizi igienici, dobbiamo fare tutto lì dentro. Spesso, in preda ad una sorta di raptus improvviso, qualcuna diventa aggressiva e morsica le altre”. “Ci sei stata anche tu?”. “Sì, ma io sono stata fortunata perché sono ritornata indietro in fretta. Lo psichiatra ha preteso che avessi rapporti sessuali con lui. Questo è il prezzo che ho pagato”. Teresa deglutì la poca saliva che le era rimasta in bocca. “Hai mai tentato la fuga?” “Sì, per questo sono finita tra le inquiete”. “Come hanno fatto a prenderti?” “Delle persone molto zelanti mi hanno catturata e riconsegnata come un oggetto di nessuna importanza. Anzi sarebbe meglio dire che mi hanno trattato al pari di un arnese da riporre nel posto assegnato. Il manicomio è un buco nero che nasconde una umanità anomala, indecifrabile, che incute paura”.
DUE ANNI DOPO
Il manicomio era sempre lo stesso, affollato di esistenze invocanti pietà, colpevoli di essere nate. Teresa ebbe finalmente il permesso di uscire in cortile. Questo era un privilegio per chi si sottometteva alle regole di una istituzione sanitaria il cui compito era quello di creare una barriera invalicabile tra dentro e fuori, annientando identità fragili e disagiate, e dove la memoria diventava dimenticanza e le ricoverate erano inerti ed inermi di fronte ad infermieri e medici che abusavano di loro in mille maniere. Il cortile dava sulla strada principale dove macchine variopinte sfrecciavano verso l’orizzonte incuranti di quell’ospedale diroccato, difeso da una rete molto robusta su cui era intrecciato del filo spinato. Il terreno metteva in mostra tutta la sua trascuratezza: chiazze d’erba qua e là tra i sassolini consumati dal continuo calpestio. Intorno all’unico albero dalla folta chioma il solco si faceva più evidente. Qualcuna vi girava intorno. Era un modo per far passare il tempo in una struttura in cui il tempo non esisteva. Anche Teresa si trovò dietro le altre, cantando “Ninna nanna ninna oh, questa bimba a chi la do…”, tentando così di rievocare il suo vissuto, ma la nebbia, che si era impadronita di lei, la confondeva.
DIECI ANNI DOPO
Teresa aveva familiarizzato con una giovane ragazza, Maria, che trattava come se fosse sua figlia e che era stata internata dal padre dopo che si era tagliata le vene. “Perché lo hai fatto?” “Ero stanca di farmi massacrare di botte”. Dopo il primo tentativo di fuga fu sottoposta al mezzo di correzione denominato Benda. Le posero un pezzo di stoffa sulla testa e la faccia, lo strinsero, le tirarono addosso acqua ghiacciata. Maria non si scoraggiò. Elaborò un piano rocambolesco, ma che avrebbe avuto qualche possibilità di riuscita. Fu tradita da una paziente per un pezzo di carne. Così fu curata con l’elettroshock. La riportarono nella camerata in coma. Teresa le baciò una guancia. “Signore del cielo, cosa le hanno fatto?” Maria rimase in quello stato per ore. Quando si svegliò, era confusa, aveva perso il senso dell’orientamento e la memoria. Le avevano bruciato il cervello. Ora Teresa avrebbe dovuto essere forte per due. “Dio vi maledica!”
VENT’ANNI DOPO
Teresa fu convocata dal Direttore del manicomio. “Questa è la tua lettera di dimissione. Domani te ne potrai andare”. “Dove? Da chi? E poi chi si prenderà cura di Maria. Chi?” Pensò. “Dovresti essere felice, invece mi pare di scorgere delusione”. “Mi scusi, è che sono stupita”. Un infermiere le diede una pacca sulla spalla per incoraggiarla. Nel corridoio che collegava l’ufficio al padiglione femminile vi era una vetrata. D’impulso si bloccò davanti alla sua figura riflessa e si guardò. Non riconobbe se stessa. Aveva i capelli secchi ed increspati, era imbruttita, sporca, il cencio che indossava era diventato grigio scuro. Teresa assomigliava ai lupi spelacchiati al termine del loro viaggio su questa terra.
“Povera Maria, vogliono che me ne vada. Ma io senza di te non andrò da nessuna parte”. Dopo la mezzanotte annodò delle strisce di tela ricavate dagli stracci da cui erano coperte. Trascinò Maria, ormai senza una parvenza di vita se non vegetale, nei bagni. Posizionò con attenzione le due rudimentali corde. Le trovarono appese. Oscillavano sotto il Sole che faceva trapelare i suoi raggi dalla finestrella. Pareva che le volesse accarezzare.
GIORNALE LOCALE
Trafiletto di cronaca a pagina venti
“Tragedia al manicomio”: due pazienti impiccate. Le dichiarazioni del Direttore e la dinamica dell’accaduto, ricostruita dalle forze dell’ordine, hanno dimostrato che è stata la pazza crudeltà di una delle due a spingerla al gesto estremo di uccidere e di uccidersi. Nessuno ha reclamato i loro corpi. Le spoglie delle due donne sono state sepolte fuori dal cimitero.