Sono uno studioso di genocidio. Lo riconosco quando lo vedo.
di Omer Bartov
N.d.T.: Questa è la traduzione italiana di “I’m a Genocide Scholar. I Know It When I See It.”, l'articolo originale è reperibile sul sito del New York Times dove è stato pubblicato il 15 luglio 2025). Si ringrazia Helena Janeczek per il link dono
Il dottor Bartov è professore di studi sull'Olocausto e sul genocidio alla Brown University.
Un mese dopo l'attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, ritenevo che esistessero prove che l'esercito israeliano avesse commesso crimini di guerra e potenzialmente crimini contro l'umanità nella sua controffensiva su Gaza. Tuttavia, contrariamente alle accuse dei critici più accaniti di Israele, le prove non mi sembravano sufficienti per configurare il crimine di genocidio.
Nel maggio 2024, le forze di difesa israeliane avevano ordinato a circa un milione di palestinesi rifugiati a Rafah, la città più meridionale e l'ultima relativamente indenne della Striscia di Gaza, di trasferirsi nella zona costiera di Mawasi, dove non c'erano quasi ripari. L'esercito ha quindi proceduto alla distruzione di gran parte di Rafah, un'impresa compiuta in gran parte entro agosto.
A quel punto non sembrava più possibile negare che il modello delle operazioni dell'IDF fosse coerente con le dichiarazioni che denotavano l'intenzione genocida espressa dai leader israeliani nei giorni successivi all'attacco di Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso che il nemico avrebbe pagato un “prezzo enorme” per l'attacco e che l'IDF avrebbe ridotto in macerie le zone di Gaza dove operava Hamas, e aveva invitato “gli abitanti di Gaza” ad “andarsene subito perché avremmo agito con forza ovunque”.
Netanyahu aveva esortato i suoi cittadini a ricordare “ciò che Amalek vi ha fatto”, una citazione che molti hanno interpretato come un riferimento alla richiesta contenuta in un passo biblico che esorta gli israeliti a “uccidere uomini e donne, bambini e neonati” del loro antico nemico. Funzionari governativi e militari hanno affermato di combattere “animali umani” e, in seguito, hanno chiesto il “totale annientamento”. Nissim Vaturi, vice presidente del Parlamento, ha dichiarato su X che il compito di Israele deve essere quello di “cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della terra”. Le azioni di Israele possono essere interpretate solo come l'attuazione dell'intenzione espressa di rendere la Striscia di Gaza inabitabile per la popolazione palestinese.
Credo che l'obiettivo fosse, e rimanga tuttora, quello di costringere la popolazione ad abbandonare completamente la Striscia o, considerando che non ha dove andare, di debilitare l'enclave attraverso bombardamenti e gravi privazioni di cibo, acqua potabile, servizi igienici e assistenza medica, in modo tale da rendere impossibile ai palestinesi di Gaza mantenere o ricostituire la loro esistenza come gruppo. La mia conclusione inevitabile è che Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese.
Essendo cresciuto in una famiglia sionista, avendo vissuto la prima metà della mia vita in Israele, avendo prestato servizio nell'IDF come soldato e ufficiale e avendo trascorso gran parte della mia carriera a fare ricerche e a scrivere sui crimini di guerra e sull'Olocausto, è stata una conclusione dolorosa da raggiungere, a cui ho resistito il più a lungo possibile. Tuttavia, insegno genocidio da un quarto di secolo. So riconoscere un genocidio quando lo vedo.
Questa non è solo la mia conclusione. Un numero crescente di esperti in studi sul genocidio e diritto internazionale ha concluso che le azioni di Israele a Gaza possono essere definite solo come genocidio. Lo stesso hanno fatto Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Cisgiordania e Gaza, e Amnesty International. Il Sudafrica ha presentato una causa per genocidio contro Israele alla Corte internazionale di giustizia.
Il continuo rifiuto di questa definizione da parte di Stati, organizzazioni internazionali ed esperti giuridici e accademici causerà un danno incalcolabile non solo alla popolazione di Gaza e di Israele, ma anche al sistema di diritto internazionale istituito sulla scia degli orrori dell'Olocausto, concepito per impedire che tali atrocità si ripetano mai più. È una minaccia alle fondamenta stesse dell'ordine morale da cui tutti dipendiamo.
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Il crimine di genocidio è stato definito nel 1948 dalle Nazioni Unite come “l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. Nel determinare cosa costituisce genocidio, quindi, dobbiamo sia stabilire l'intenzione sia dimostrare che essa viene messa in atto. Nel caso di Israele, tale intenzione è stata espressa pubblicamente da numerosi funzionari e leader. Ma l'intenzione può anche essere dedotta da un modello di operazioni sul campo, e questo modello è diventato chiaro nel maggio 2024 – e da allora è diventato sempre più chiaro – con la distruzione sistematica della Striscia di Gaza da parte dell'IDF.
La maggior parte degli studiosi di genocidio è cauta nell'applicare questo termine agli eventi contemporanei, proprio a causa della tendenza, fin dalla sua coniazione da parte dell'avvocato ebreo-polacco Raphael Lemkin nel 1944, ad attribuirlo a qualsiasi caso di massacro o disumanità. Alcuni sostengono infatti che la categorizzazione dovrebbe essere completamente abbandonata, perché spesso serve più a esprimere indignazione che a identificare un crimine particolare.
Tuttavia, come ha riconosciuto Lemkin e come hanno successivamente concordato le Nazioni Unite, è fondamentale poter distinguere il tentativo di distruggere un particolare gruppo di persone da altri crimini previsti dal diritto internazionale, come i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità. Questo perché, mentre altri crimini comportano l'uccisione indiscriminata o deliberata di civili in quanto individui, il genocidio denota l'uccisione di persone in quanto membri di un gruppo, con l'obiettivo di distruggere irreparabilmente il gruppo stesso in modo che non possa mai ricostituirsi come entità politica, sociale o culturale. Inoltre, come ha segnalato la comunità internazionale adottando la convenzione, spetta a tutti gli Stati firmatari impedire tali tentativi, fare tutto il possibile per fermarli mentre sono in corso e punire successivamente coloro che hanno commesso questo crimine tra i crimini, anche se è stato commesso all'interno dei confini di uno Stato sovrano.
La designazione ha importanti ripercussioni politiche, giuridiche e morali. Le nazioni, i politici e il personale militare sospettati, incriminati o riconosciuti colpevoli di genocidio sono considerati al di fuori dell'umanità e possono compromettere o perdere il loro diritto di rimanere membri della comunità internazionale. Una sentenza della Corte internazionale di giustizia che dichiara che un determinato Stato è coinvolto in un genocidio, soprattutto se applicata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, può portare a severe sanzioni.
I politici o i generali accusati o riconosciuti colpevoli di genocidio o di altre violazioni del diritto internazionale umanitario dalla Corte penale internazionale possono essere arrestati al di fuori del loro paese. E una società che tollera o è complice del genocidio, qualunque sia la posizione dei suoi singoli cittadini, porterà questo marchio di Caino a lungo dopo che le fiamme dell'odio e della violenza si saranno spente.
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Israele ha negato tutte le accuse di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio. L'IDF afferma di indagare sulle segnalazioni di crimini, anche se raramente ha reso pubblici i risultati delle sue indagini e, quando sono state riconosciute violazioni della disciplina o del protocollo, ha generalmente inflitto lievi reprimende al proprio personale. I leader militari e politici israeliani descrivono ripetutamente l'IDF come un'organizzazione che agisce nel rispetto della legge, affermano di aver avvertito la popolazione civile di evacuare i luoghi che stavano per essere attaccati e accusano Hamas di usare i civili come scudi umani.
In realtà, la distruzione sistematica a Gaza non solo delle abitazioni ma anche di altre infrastrutture – edifici governativi, ospedali, università, scuole, moschee, siti del patrimonio culturale, impianti di trattamento delle acque, aree agricole e parchi – riflette una politica volta a rendere altamente improbabile la rinascita della vita palestinese nel territorio.
Secondo una recente indagine di Haaretz, si stima che 174.000 edifici siano stati distrutti o danneggiati, pari al 70% di tutte le strutture della Striscia. Finora, secondo le autorità sanitarie di Gaza, sono state uccise più di 58.000 persone, tra cui oltre 17.000 bambini, che costituiscono quasi un terzo del totale delle vittime. Più di 870 di questi bambini avevano meno di un anno.
Più di 2.000 famiglie sono state sterminate, secondo le autorità sanitarie. Inoltre, 5.600 famiglie contano ora un solo sopravvissuto. Si ritiene che almeno 10.000 persone siano ancora sepolte sotto le macerie delle loro case. Più di 138.000 sono rimaste ferite e mutilate.
Gaza ha ora il triste primato di avere il più alto numero di bambini amputati pro capite al mondo. Un'intera generazione di bambini sottoposti a continui attacchi militari, alla perdita dei genitori e alla malnutrizione cronica subirà gravi ripercussioni fisiche e mentali per il resto della propria vita. Altre migliaia di persone affette da malattie croniche hanno avuto poco accesso alle cure ospedaliere.
L'orrore di ciò che sta accadendo a Gaza è ancora descritto dalla maggior parte degli osservatori come una guerra. Ma questo è un termine improprio. Nell'ultimo anno, l'IDF non ha combattuto contro un corpo militare organizzato. La versione di Hamas che ha pianificato e portato a termine gli attacchi del 7 ottobre è stata distrutta, anche se il gruppo indebolito continua a combattere le forze israeliane e mantiene il controllo sulla popolazione nelle zone non controllate dall'esercito israeliano.
Oggi l'IDF è principalmente impegnata in un'operazione di demolizione e pulizia etnica. È così che l'ex capo di gabinetto e ministro della Difesa di Netanyahu, il falco Moshe Yaalon, ha descritto a novembre sulla tv israeliana Demcrat TV e in successivi articoli e interviste il tentativo di ripulire il nord di Gaza dalla sua popolazione.
Il 19 gennaio, sotto la pressione di Donald Trump, a un giorno dal suo ritorno alla presidenza, è entrato in vigore un cessate il fuoco che ha facilitato lo scambio di ostaggi a Gaza con prigionieri palestinesi in Israele. Tuttavia, dopo la violazione del cessate il fuoco da parte di Israele il 18 marzo, l'IDF ha messo in atto un piano ampiamente pubblicizzato per concentrare l'intera popolazione di Gaza in un quartiere del territorio suddiviso in tre zone: la città di Gaza, i campi profughi centrali e la costa di Mawasi, all'estremità sud-occidentale della Striscia.
Utilizzando un gran numero di bulldozer e enormi bombe aeree fornite dagli Stati Uniti, l'esercito sembra voler demolire ogni struttura rimasta e stabilire il controllo sugli altri tre quarti del territorio.
Ciò è facilitato anche da un piano che prevede – in modo intermittente – la fornitura di aiuti limitati in alcuni punti di distribuzione sorvegliati dall'esercito israeliano, attirando la popolazione verso sud. Molti abitanti di Gaza vengono uccisi nel disperato tentativo di procurarsi del cibo e la crisi alimentare si aggrava. Il 7 luglio, il ministro della Difesa israeliano Katz ha dichiarato che l'IDF avrebbe costruito una “città umanitaria” sulle rovine di Rafah per ospitare inizialmente 600.000 palestinesi della zona di Mawasi, che sarebbero stati riforniti da organismi internazionali e non avrebbero potuto lasciare la città.
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Alcuni potrebbero descrivere questa campagna come pulizia etnica, non genocidio. Tuttavia, esiste un legame tra questi crimini. Quando un gruppo etnico non ha un luogo dove andare ed è costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura all'altra, bombardato senza tregua e affamato, la pulizia etnica può trasformarsi in genocidio.
È stato il caso di diversi genocidi ben noti del XX secolo, come quello degli Herero e dei Nama nell'Africa sud-occidentale tedesca, oggi Namibia, iniziato nel 1904; quello degli armeni durante la prima guerra mondiale; e, naturalmente, anche l'Olocausto, iniziato con il tentativo tedesco di espellere gli ebrei e finito con il loro sterminio.
Ad oggi, solo pochi studiosi dell'Olocausto – e nessuna istituzione dedicata alla ricerca e alla commemorazione – hanno lanciato l'allarme che Israele potrebbe essere accusato di crimini di guerra, crimini contro l'umanità, pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha reso ridicolo lo slogan “Mai più”, trasformandone il significato da affermazione di resistenza alla disumanità ovunque essa sia perpetrata a scusa, addirittura a carta bianca per distruggere gli altri invocando il proprio passato di vittima.
Questo è un altro dei tanti costi incalcolabili dell'attuale catastrofe. Mentre Israele sta letteralmente cercando di cancellare l'esistenza palestinese a Gaza e sta esercitando una violenza crescente contro i palestinesi in Cisgiordania, il credito morale e storico di cui lo Stato ebraico ha goduto fino ad ora si sta esaurendo.
Israele, creato sulla scia dell'Olocausto come risposta al genocidio nazista degli ebrei, ha sempre insistito sul fatto che qualsiasi minaccia alla sua sicurezza deve essere vista come potenzialmente in grado di portare a un altro Auschwitz. Questo fornisce a Israele la licenza di dipingere coloro che considera suoi nemici come nazisti, un termine utilizzato ripetutamente dai media israeliani per descrivere Hamas e, per estensione, tutti i gazawi, sulla base dell'affermazione popolare che nessuno di loro è “estraneo”, nemmeno i bambini, che da grandi potrebbero diventare militanti.
Non si tratta di un fenomeno nuovo. Già durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982, il primo ministro Menachem Begin paragonò Yasir Arafat, allora rifugiato a Beirut, ad Adolf Hitler nel suo bunker di Berlino. Questa volta, l'analogia viene utilizzata in relazione a una politica volta a sradicare e rimuovere l'intera popolazione di Gaza.
Le scene di orrore quotidiane a Gaza, dalle quali l'opinione pubblica israeliana è protetta dall'autocensura dei propri media, smascherano le menzogne della propaganda israeliana secondo cui questa sarebbe una guerra di difesa contro un nemico simile ai nazisti. Si rabbrividisce quando i portavoce israeliani pronunciano spudoratamente lo slogan vuoto secondo cui l'IDF sarebbe “l'esercito più morale del mondo”.
Alcune nazioni europee, come Francia, Gran Bretagna e Germania, nonché il Canada, hanno protestato debolmente contro le azioni israeliane, soprattutto dopo la violazione del cessate il fuoco a marzo. Tuttavia, non hanno sospeso le forniture di armi né intrapreso molte misure economiche o politiche concrete e significative che potrebbero dissuadere il governo di Netanyahu.
Per un certo periodo, il governo degli Stati Uniti sembrava aver perso interesse per Gaza, con il presidente Trump che inizialmente aveva annunciato a febbraio che gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo di Gaza, promettendo di trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”, per poi lasciare che Israele continuasse la distruzione della Striscia e rivolgere la sua attenzione all'Iran. Al momento, si può solo sperare che Trump faccia nuovamente pressione sul riluttante Netanyahu affinché raggiunga almeno un nuovo cessate il fuoco e ponga fine alle uccisioni incessanti.
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In che modo il futuro di Israele sarà influenzato dall'inevitabile demolizione della sua incontestabile moralità, derivata dalla sua nascita dalle ceneri dell'Olocausto?
La leadership politica israeliana e i suoi cittadini dovranno decidere. Sembra esserci poca pressione interna per il cambiamento di paradigma urgentemente necessario: il riconoscimento che non c'è altra soluzione a questo conflitto se non un accordo israelo-palestinese per condividere la terra secondo i parametri concordati dalle due parti, che si tratti di due Stati, uno Stato o una confederazione. Anche una forte pressione esterna da parte degli alleati del Paese sembra improbabile. Sono profondamente preoccupato che Israele persista nel suo percorso disastroso, trasformandosi, forse in modo irreversibile, in uno Stato autoritario di apartheid a tutti gli effetti. Come ci ha insegnato la storia, Stati di questo tipo non durano a lungo.
Sorge un'altra domanda: quali conseguenze avrà l'inversione morale di Israele sulla cultura della commemorazione dell'Olocausto e sulla politica della memoria, dell'istruzione e della ricerca, quando così tanti dei suoi leader intellettuali e amministrativi hanno finora rifiutato di assumersi la responsabilità di denunciare la disumanità e il genocidio ovunque si verifichino?
Coloro che sono impegnati nella cultura mondiale della commemorazione e della memoria costruita attorno all'Olocausto dovranno confrontarsi con un giudizio morale. La più ampia comunità di studiosi del genocidio – coloro che si occupano dello studio comparato del genocidio o di uno qualsiasi dei molti altri genocidi che hanno segnato la storia dell'umanità – si sta ora avvicinando sempre più a un consenso sul definire gli eventi di Gaza come un genocidio.
A novembre, a poco più di un anno dall'inizio della guerra, lo studioso israeliano di genocidio Shmuel Lederman si è unito al coro crescente di opinioni secondo cui Israele era impegnato in azioni genocidarie. L'avvocato internazionale canadese William Schabas è giunto alla stessa conclusione lo scorso anno e ha recentemente descritto la campagna militare di Israele a Gaza come “assolutamente” un genocidio.
Altri esperti di genocidio, come Melanie O'Brien, presidente dell'Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio, e lo specialista britannico Martin Shaw (che ha anche affermato che l'attacco di Hamas era genocida), sono giunti alla stessa conclusione, mentre lo studioso australiano A. Dirk Moses della City University di New York ha descritto questi eventi nella pubblicazione olandese NRC come un “mix di logica genocida e militare”. Nello stesso articolo, Uğur Ümit Üngör, professore presso l'Istituto NIOD per gli studi sulla guerra, l'Olocausto e il genocidio con sede ad Amsterdam, ha affermato che probabilmente ci sono studiosi che ancora non pensano che si tratti di genocidio, ma “non li conosco”.
La maggior parte degli studiosi dell'Olocausto che conosco non condivide, o almeno non esprime pubblicamente, questa opinione. Con poche eccezioni degne di nota, come l'israeliano Raz Segal, direttore del programma di studi sull'Olocausto e il genocidio alla Stockton University nel New Jersey, e gli storici dell'Università Ebraica di Gerusalemme Amos Goldberg e Daniel Blatman, la maggior parte degli accademici che si occupano della storia del genocidio nazista degli ebrei è rimasta notevolmente in silenzio, mentre alcuni hanno apertamente negato i crimini di Israele a Gaza o hanno accusato i loro colleghi più critici di incitamento all'odio, esagerazioni selvagge, avvelenamento del pozzo e antisemitismo.
A dicembre lo studioso dell'Olocausto Norman J.W. Goda ha affermato che “accuse di genocidio come queste sono state a lungo utilizzate come foglia di fico per contestare più ampiamente la legittimità di Israele”, esprimendo la sua preoccupazione che “abbiano sminuito la gravità della parola genocidio stessa”. Questa “calunnia di genocidio”, come l'ha definita il dottor Goda in un saggio, “utilizza una serie di tropi antisemiti”, tra cui “l'accostamento dell'accusa di genocidio all'uccisione deliberata di bambini, le cui immagini sono onnipresenti sulle ONG, sui social media e su altre piattaforme che accusano Israele di genocidio”.
In altre parole, mostrare immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi da bombe fabbricate negli Stati Uniti e lanciate da piloti israeliani è, secondo questa visione, un atto antisemita.
Più recentemente, il dottor Goda e Jeffrey Herf, stimato storico europeo, hanno scritto sul Washington Post che “l'accusa di genocidio lanciata contro Israele attinge a profondi pozzi di paura e odio” che si trovano nelle “interpretazioni radicali sia del cristianesimo che dell'islam”. Essa “ha spostato il disprezzo per gli ebrei come gruppo religioso/etnico allo Stato di Israele, che descrive come intrinsecamente malvagio”.
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Quali sono le ramificazioni di questa frattura tra studiosi di genocidio e storici dell'Olocausto? Non si tratta solo di una disputa accademica. La cultura della memoria creata negli ultimi decenni intorno all'Olocausto comprende molto più del genocidio degli ebrei. È arrivata a svolgere un ruolo cruciale nella politica, nell'istruzione e nell'identità.
I musei dedicati all'Olocausto sono serviti da modello per la rappresentazione di altri genocidi in tutto il mondo. L'insistenza sul fatto che le lezioni dell'Olocausto richiedono la promozione della tolleranza, della diversità, dell'antirazzismo e del sostegno ai migranti e ai rifugiati, per non parlare dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, è radicata nella comprensione delle implicazioni universali di questo crimine nel cuore della civiltà occidentale al culmine della modernità.
Screditare gli studiosi di genocidio che denunciano il genocidio di Israele a Gaza come antisemita minaccia di erodere le fondamenta degli studi sul genocidio: la necessità continua di definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio. Suggerire che questo sforzo sia invece motivato da interessi e sentimenti maligni, che sia guidato proprio dall'odio e dal pregiudizio che sono stati alla base dell'Olocausto, non solo è moralmente scandaloso, ma apre anche la strada a una politica di negazionismo e impunità.
Allo stesso modo, quando coloro che hanno dedicato la loro carriera all'insegnamento e alla commemorazione dell'Olocausto insistono nell'ignorare o negare le azioni genocidarie di Israele a Gaza, minacciano di minare tutto ciò che gli studi e la commemorazione dell'Olocausto hanno rappresentato negli ultimi decenni. Vale a dire la dignità di ogni essere umano, il rispetto dello Stato di diritto e l'urgente necessità di non lasciare mai che l'inumano conquisti i cuori delle persone e guidi le azioni delle nazioni in nome della sicurezza, dell'interesse nazionale e della pura vendetta.
Ciò che temo è che, all'indomani del genocidio di Gaza, non sarà più possibile continuare a insegnare e ricercare l'Olocausto come abbiamo fatto finora. Poiché l'Olocausto è stato invocato senza sosta dallo Stato di Israele e dai suoi difensori per coprire i crimini dell'IDF, lo studio e la memoria dell'Olocausto potrebbero perdere la loro pretesa di occuparsi di giustizia universale e ritirarsi nello stesso ghetto etnico in cui hanno avuto inizio alla fine della seconda guerra mondiale, come preoccupazione marginale dei resti di un popolo emarginato, un evento etnicamente specifico, prima di riuscire, decenni dopo, a trovare il loro giusto posto come lezione e monito per l'umanità intera.
Altrettanto preoccupante è la prospettiva che lo studio del genocidio nel suo complesso non sopravviva alle accuse di antisemitismo, lasciandoci senza quella comunità fondamentale di studiosi e giuristi internazionali che si schiera in prima linea in un momento in cui l'ascesa dell'intolleranza, dell'odio razziale, del populismo e dell'autoritarismo minaccia i valori che erano al centro degli sforzi accademici, culturali e politici del XX secolo.
Forse l'unica luce alla fine di questo tunnel molto buio è la possibilità che una nuova generazione di israeliani affronti il proprio futuro senza rifugiarsi nell'ombra dell'Olocausto, anche se dovrà sopportare la macchia del genocidio perpetrato a Gaza in suo nome. Israele dovrà imparare a vivere senza ricorrere all'Olocausto come giustificazione per l'inumano. Questo, nonostante tutte le terribili sofferenze a cui stiamo assistendo, è un aspetto prezioso e, a lungo termine, potrebbe aiutare Israele ad affrontare il futuro in modo più sano, razionale, meno timoroso e violento.
Ciò non servirà a compensare l'incalcolabile numero di morti e le sofferenze dei palestinesi. Tuttavia, un Israele liberato dal peso schiacciante dell'Olocausto potrebbe finalmente accettare l'inevitabile necessità che i suoi sette milioni di cittadini ebrei condividano la terra con i sette milioni di palestinesi che vivono in Israele, a Gaza e in Cisgiordania in pace, uguaglianza e dignità. Questo sarà l'unico giusto compromesso.