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Caro diario. Trascrivere tutto. Questa mattina mi sono seduto sul divano, la casa piena di sconosciuti, non ne voglio parlare. Ho preso due libri che ho in casa, libri che ogni tanto sfoglio, sono gli unici due libri di arte che mi sia mai comprato. No, non è vero. Ma non ne ho comunque molti. Questi due in un certo senso sono collegati, sfogliandoli resto sempre affascinato. Uno è di Helnwein, l'altro è di Ray Caesar. Sono entrambi due cataloghi, antologici, tecniche di computer graphic per il secondo, fotografia, teatro e arti figurative per il primo. Mutazioni del corpo, una sessualità lesionata, a volte in maniera violenta, ascessi pop, iperrealismo fotografico e surrealismo al digitale. Ironia, ogni tanto con Ray Caesar sbotto a ridere da solo. Li guardo e giro le pagine. Il fastidio di quelle pagine così piccole. La primitiva voglia di zoomare con pagine che mostrano dettagli e particolari. Lo sforzo della carta di avere dimensioni diverse da quelle che ha. Ad un certo punto prendo il cellulare e imposto un filtro particolare che smorza tutto in bianco e nero, tagliando le tonalità di grigio e rendendole con del dithering, ma ogni tanto, non so perché, alcuni elementi diventano rossi, si creano delle foto in bianco, nero e rosso. Una foto che è naturalmente artefatta, postprodotta all'origine. Fotografo un po' di pagine, così. Le condivido, chiudo tutto. Ci vedo così poco. Sono costretto a prendere gli occhiali. Della grafica non sai se l'hai davvero vista, le frasi lasciano i segni elemen,tari dei loro concetti, ma la grafica ti passa sotto gli occhi. Ho sempre paura, girando pagina, di essermi perso qualcosa di essenziale, una sensazione che avrei dovuto provare e non l'ho fatto. Metto via tutto. Più tardi sono solo in cucina. Ho registrato dei suoni di me che cammino sulla neve, sono quattro registrazioni differenti. Una vicino a un corso d'acqua, l'altra a passi lenti, la terza con dei suoni lontani di automobili, l'ultima a passi più veloci. Il suono della neve schiacciata dai miei passi. Copio i quattro suoni sul secondo cellulare, quello che uso per parlare. Poi li copio sul portatile e alla fine sull'ebook reader. Spengo le luci della sala. Vado in un angolo della sala e poso un cellulare, nascondendolo. Faccio partire la prima registrazione, la metto in loop. Vado dalla parte opposta della sala e faccio partire la seconda, con il secondo cellulare. In loop. Poi la terza ad un ipotetico terzo angolo e quella finale con l'ebook reader. Tutte e quattro, creano un tappeto sonoro. Mi metto nel mezzo della sala, nella penombra della sera e sento tutto attorno a me passi nella neve. Mi giro, cammino, cerco di capire cosa possa cambiare nella percezione del suono rispetto ad un normale suono sterofonico. Chiamo mia figlia. Lei scende, satellando, la metto in mezzo alla stanza, le dico di chiudere gli occhi e di cercare di capire quante fonti sonore ci sono e dove sono. Lei sta un po' ferma, gira, inizia a indicare – nel buio – zone della sala. Dopo un po' individua tutte le quattro fonti, mi guarda, credo. La cosa le è piaciuta, quel tanto che basta. Dice che lo dobbiamo fare con qualcun'altro, va a chiamare suo fratello. Anche lui scende. Ascolta le regole del gioco. Si mette nel mezzo della stanza. Gira, indica anche lui zone della sala. Nel buio, è comunque una cosa diversa. La realtà virtuale fatta con le povere cose. A rovescio, passeremo a fare la tecnologia con l'elettronica amputata. Più il sistema ci inonda della sua faticosa perfezione, più prenderemo a romperla. Più l'informatica diventa plasticamente armonica, più gli attaccheremo delle ridicole protesi per ridurla, per renderla umana. Intanto mio figlio mi guarda, ridacchia, se na va via saltellando al piano di sopra. Helnwein infilava le forchette negli occhi alla figlia, non mi lamenterei.