viewELOGIO DELLA PIRATERIA
Confesso, credo in questo aiutato dall'intervenuta prescrizione, di avere in gioventù (e quindi ormai molti anni addietro) piratato tutto ciò che era possibile duplicare.
In primis, musica: avevo uno zio, collezionista di LP e, quando veniva a trovarmi per le feste comandate, mi facevo trovare con pacchi di cassette vergini da 90 min per trasferire – senza neppure avere il tempo di ascoltarli prima – tutti gli album che aveva acquistato nel trimestre precedente.
In seguito ho piratato giochi, prima per PC poi per console, (quando anche alla Sony 'stava – tutto sommato – bene' che la sua PS si affermasse sulle altre anche grazie a questo incofessabile stratagemma), quindi software.
Ne vado fiero? No, certamente. E ci mancherebbe pure.
Però, una volta raggiunta una certa capacità di spesa (ovvero, da quando ho iniziato a lavorare) ho effettuato una specie di ravvedimento operoso, perché – di fatto – ho riacquistato assai più di tutti i CD/LP che mi ero piratato da ragazzo. E ho installato sui pc – mio e dei miei familiari – unicamente software con regolari licenze o liberamente utilizzabile. E ho pagato fino all'ultimo centesimo i giochi delle console che ho acquistato in seguito.
E' sufficiente a meritare il perdono? Non credo e non mi aspetto tanto,
Però è qualcosa che consente di fare qualche considerazione.
IL DIRITTO ALLA CULTURA
Se io non avessi piratato tutto quello che ho duplicato da ragazzo, non avrei MAI speso tutto ciò che ho speso poi – da adulto – in CD, videogames, licenze software.
Di più, non avrei mai raggiunto quel livello di cultura necessario per acquisire anche solo la consapevolezza del valore dei beni che poi ho acquistato.
Perché per convincere qualcuno a pagare qualcosa, è necessario che questi ne riconosca il valore e che ritenga la spesa congrua al bene acquistato e al piacere che da esso ne trae.
Se non avessi avuto la possibilità di spaziare così liberamente tra artisti e generi musicali – i più svariati – di sicuro non mi sarei innamorato di molti di loro, non ne avrei inseguito le produzioni nel tempo, non sarei andato ai loro concerti, non avrei messo insieme elettroniche in grado di restituirmi una riproduzione fedele di quelle opere – in breve – non avrei reso all'industria discografica, e al suo indotto, tutto quello che poi ho speso.
E – intendiamoci – non si tratta di una mera “restituzione della refurtiva” perché, essendo io da ragazzo – come moltissimi altri giovani – privo di mezzi economici, l'alternativa alla pirateria non era “pagare il prezzo del CD” ma “non avere il CD”.
Detto altrimenti, se non avessi avuto la possibilità di ascoltare prima “a sbafo”, non avrei MAI comprato. Né prima, né dopo.
E' comodo – ma sbagliato – calcolare il danno economico arrecato dalla pirateria moltiplicando il valore unitario del bene violato per il numero di copie illegalmente distribuite. Anche di recente l'editoria ha reclamato a gran voce lo stop dei canali Telegram in cui si distribuivano riviste e giornali in pdf, applicando l'equazione suenunciata, e lamentando danni incommensurabili. La verità è che – Telegram o meno – il 99% degli iscritti a quei canali non avrebbe comunque comprato le riviste ricevute e che chi già le acquistava non ha certo smesso di farlo; al contrario, è ben possibile che persone che, fino alla ricezione “gratuita” di una certa rivista neppure la conoscevano o l'avevano mai sfogliata, abbiano magari deciso l'acquisto della copia fisica.
Come dice Hannibal Lecter ne “Il silenzio degli innocenti”, “noi desideriamo ciò che vediamo ogni giorno”: la pirateria squarcia un velo, raggiunge platee che altrimenti resterebbero terra morta, libera l'accesso alla cultura a migliaia di persone prive dei mezzi economici che, una volta in grado di apprezzarne il valore, “potranno” decidere di sostenerne stabilmente l'acquisto.
Si ha un bel dire che esistono le radio che permettono di ascoltare la musica legalmente, le biblioteche e le emeroteche per libri, riviste e fumetti in prestito, anche digitale, le promozioni e i periodi di prova gratuiti. Ma niente è altrettanto pervasivo e capillare quanto la pirateria, che fa quello che il marketing, le istituzioni... tutto quello che volete, non riescono a fare altrettanto efficacemente.
IL GIUSTO PREZZO
Però, ad un dato momento, non basta il desiderio, la determinazione a spendere, occorre anche che il prezzo richiesto sia considerato “congruo” per il bene ricevuto in cambio. E qui il discorso si fa – se possibile – ancora più soggettivo.
Qual è il prezzo giusto di un CD? o di un libro? di una rivista o di un film?
Durante una discussione, un collega – appassionato di libri – mi rimproverò sentendomi dire di di aver fotocopiato un libro ai tempi dell'università, replicando come per lui fosse imprescindibile averne il possesso esclusivo – mai un prestito! – e come fosse inimmaginabile brutalizzarli con evidenziatori, sottolineature o appunti, piegando gli angoli o le pagine le une sul retro delle altre. Il suo amore per i libri è qualcosa di fisico, materico, che parte dal e poi trascende il contenuto per dilagare sul contenitore.
Per me, che amo la musica, succede lo stesso con quella: a distanza di anni, se un disco mi piace non posso accettare l'idea di ascoltarlo attraverso un supporto non originale, privo di custodia, libretto, magari in formato compresso e coi titoli scritti a mano con il pennarello indelebile, cosa che – al contrario – al mio collega, quando si parla di musicca, non genera alcun fastidio.
Con questo esempio, voglio dire che non può esistere un prezzo che universalmente rifletta il “giusto valore” da dare a qualcosa, perché siamo noi stessi a darglielo.
C'è chi è disposto a fare sacrifici per un'auto, chi per una cena in un ristorante stellato, chi spende cifre considerevoli in creme e gioielli, chi in elettronica o viaggi e ciascuno, per la propria passione, pagherà somme che ad altri appariranno inconcepibili.
E' ovvio che se l'alternativa al prezzo da pagare è il “gratis”, qualunque prezzo – anche il più basso – non sarà mai altrettanto conveniente. Ma se si è predisposti a riconoscere un valore a ciò che nel tempo si è imparato ad apprezzare, allora quel punto di equilibrio si muove verso un'equità sostenibile, duratura e conveniente per entrambe le parti.
Esiste un meme che mostra Torrent (sistema di condivisione illegale di file attraverso Internet) che viene messo alla porta per fare posto a Netflix, che permetteva di vedere legalemente tutte le serie TV e i film che si potessero desiderare in quel momento ad un prezzo accessibile; e poi la stessa scena in cui, anni dopo, a causa della proliferazione e frammentazione dell'offerta, dell'aumento dei prezzi, della lotta alla condivisione delle password, le piattaforme a pagamento sono diventate talmente tante, dispersive e costose che Torrent si riaffaccia dalla finestra del locale da cui era uscito.
Credo che sia una buona approssimazione del meccanismo che si crea quando la fiducia del cliente viene meno e non c'è più corrispondenza tra prezzo richiesto e valore percepito.
L'EFFETTO SHERWOOD
Io chiamo così quel sentimento che spinge un utente a reagire contro quella che – a torto o a ragione – percepisce come un'ingiustizia.
Vale per il meme citato prima ma era vero anche ai tempi della mia adolescenza: ricordo ancora con fastidio la delusione dopo l'ascolto di un LP mediocre, faticosamente comprato dopo essermi entusiasmato troppo rapidamente per il brano che ne accompagnava il lancio.
Scoprire che la canzone che mi aveva determinato all'acquisto era anche l'unica decente, in un album di 9-12 brani inediti, era urticante. Mi sentivo letteralmente derubato.
Sicché è stato con malcelata soddisfazione che negli anni successivi ho duplicato (e poi magari anche cancellato) album di dubbio gusto, registrati in modo pessimo, piratandoli illegalmente, con il recondito pensiero “stavolta non mi avete fregato!”
E, per motivi altrettanto comprensibili, sono stato felice e soddisfatto di riacquistare in originale album che avevo consumato in copie contraffatte, finalmente con un supporto e un package completo, curato, legittimo.
Ricordo i soldi spesi per i libri, che non bastavano mai; l'attesa che un libro finisse finalmente in ristampa “economica” per poterlo acquistare, leggere e custodire in libreria. Ricordo il prezzo crescente dei fumetti, che non mi ha mai impedito di comprarne in numero sempre maggiore, a costo di sacrifici.
E ricordo come, ad ogni ricorrente aumento di prezzo, la giustificazione ricorrente e principale fosse legata all'aumento del costo della carta.
Perciò è stato con impazienza che ho atteso che prendessero piede i libri in formato elettronico, così da assistere ad un visibile calo dei prezzi.
E invece? E invece la differenza di prezzo tra copia cartacea e digitale a volte persino non c'è o è talmente piccola da non trovare comprensibile giustificazione.
Si è detto – allora – che in realtà il prezzo è il riconoscimento dell'equo compenso dell'editore, dell'autore, della filiera tutta che lavora intorno al libro e che il costo del supporto – contrordine compagni! – è secondario nella determinazione della cifra finale.
E allora, se davvero quel che pago è il valore immateriale dell'opera, perché se compro il cartaceo non posso avere anche la copia digitale (cosa che, per un certo periodo accadeva con i Blu-ray)?
Perché se ho già acquistato un album su LP non posso avere il corrispondendente CD al solo costo del supporto? perché se lo ricompro su XRCD, SACD, DVD-A, BLU-RAY audio – e tutti i millemila formati per audiofili da prendere per il naso – devo ogni volta pagare il prezzo pieno (o parecchio più alto) per la stessa opera?
Quand'è così, allora...
SE TUTTO VALE, NIENTE PIU' VALE
Oggi nessuno più compra nulla su supporto fisico durevole. Non la musica – dove lo streaming, anche ad alta definizione, impera incontrastato – non i film – dove le piattaforme hanno a catalogo più o meno tutto e il susseguirsi isterico di formati FHD, 4K, 8K, del super supporto tipo dentifricio-per-denti-bianchi-sempre-più-bianchi hanno disincentivato qualsiasi acquisto – non i libri – che non sono oramai più neppure elemento d'arredamente bensì fastidiosi oggetti che dopo un po' non si sa dove tenere.
Tutto si consuma, si utilizza e si abbandona, senza neppure preoccuparsi di reclamarne la proprietà o l'utilizzo perpetuo, trasferibile, libero ed esclusivo.
La musica che ascoltiamo in streaming o che acquistiamo on line di base non ci appartiene, si può ascoltare solo per la durata dell'abbonamento al servizio prescelto, i libri sono solo in licenza d'uso, i film a noleggio, e nessuno se ne cura.
Non c'è il piacere di possedere questi beni, perché si è persa l'attesa, i riti dell'apprensione, dello scartare, il piacere tattile, l'onere della custodia, manca la cultura del contenuto e del contenitore, sapendo che ciò che si vuole può essere tuo – legalmente o illegamente – in pochi click, a patto di avere una buona connessione dati.
In un contesto dove tutto è immateriale e pochi detengono non solo il diritto dell'opera ma anche la possibilità di accedere alla stessa, la progessiva scomparsa dei supporti fisici coinciderà inevitabilmente con la perdita del controllo sull'accesso e la fruizione dei contenuti incorporati.
Poche major oggi detengono interi cataloghi, e quindi anche le chiavi di accesso e fruizione degli stessi: pensate se da domani un titolo dovesse arbitrariamente sparire dal catalogo di chi ne detiene i diritti.
L'ultimo baluardo di libertà torna quindi ad essere – ancora una volta – la pirateria digitale: l'unico mezzo che consente, indipendentemente da tutto e tutti, da leggi legittime e tutele sacrosante, di potersi appropriare dei contenuti boicottando i lacciuoli che ne potrebbero impedire – anche per capriccio di chi legittimamente ne detiene i diritti – una libera, piena, incondizionata fruizione.
I giovani, che hanno sete di contenuti e praterie di tempo per assimilati ma sono privi di capacità economiche per finanziari, sono condannati alla pirateria se – anarchicamente – decidono di anteporre il loro bisogno di accesso ai contenuti di cultura al rispetto di regole che non possono rispettare.
Servirebbe un patto sociale di libero accesso per finalità di consumo personale per i giovani, garantendo loro legittimità o impunità nella fruizione di certi contenuti, come forma di investimento nelle nuove generazioni.
Il bonus cultura, in un certo senso, voleva essere una risposta, non so se buona o cattiva.
Io una soluzione non ce l'ho, ma il problema lo vedo, lo sento, forte intorno a noi.