“La metafisica del gelsomino e altre disavventure dell'alba”

Erano le sei del mattino, o forse no. Magari era un'altra ora, chi lo sa? Il cielo, quello sì, pareva stonato, una pennellata mal riuscita d’artista dilettante. Gennaio? Ma chi ha deciso che Gennaio deve essere così, con l’aria fresca? Una congiura meteorologica.

“Si fece buio.” Certo, perché il buio ha sempre questa tendenza a infilarsi dove non è invitato.

E poi sei andato via, verso il cielo, o magari verso un’altra dimensione. Chi lo dice che non sia finito in un bar galattico a chiacchierare con marziani appassionati di gelsomini? Padre mio, tutto era finito, o forse cominciato. Dipende dai punti di vista, no?

Ti alzavi sempre all’alba, come se il mattino fosse un appuntamento da non perdere. Ti ci vedevo, seduto sui gradini davanti alla porta, in compagnia di un gelsomino che, francamente, era troppo invadente. “Che bello al mattino,” dicevi, come se il pomeriggio non valesse un soldo bucato.

Ma cos’è questa serenità di cui parlavi? Io non l’ho mai vista, né al mattino né al tramonto. Però a te bastava, con quella gioia minimalista.

E poi quel giorno di Gennaio – sì, torniamoci – il grano non era maturo, come se avesse deciso di fare sciopero. Le nocciole? Nemmeno l’ombra. E le olive argentate, quelle stavano ancora discutendo su come brillare al sole. Un silenzio così, però, mica lo trovi dappertutto.

Nella strada tutto taceva, persino il lampione, che aveva mollato la presa. Le scale scricchiolavano come vecchi signori col mal di schiena, e il gelsomino, lui, sempre lì, a fare il protagonista.

Si fece buio. Ancora. Una ripetizione cosmica, quasi noiosa, come il cielo che, commosso, piangeva. Ma cosa piangi, cielo? Forse era solo un altro sbalzo d’umore atmosferico.

Si fece buio. E io, francamente, accesi la luce.

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