Alviro

“Alviro Insights: Riflessioni e Creatività” Mastodon

Adoro i piaceri semplici, come quando il tempo decide di annodarsi e le sedie iniziano a raccontare barzellette in dialetto quantico. Sono l’ultimo rifugio, dicono, ma un rifugio è solo un’idea che ha dimenticato di indossare i pantaloni prima di uscire di casa. Le persone complicate? Si perdono nel labirinto dei bottoni della camicia, cercano significati nelle virgole e finiscono per annegare in una goccia di rugiada iperbolica.

Il piacere semplice è un sasso che canta canzoni d’amore alle ombre, è il respiro di un’equazione che ha smesso di contare e ora fa il giocoliere con numeri immaginari. Complicato? No, è solo il caos che si traveste da logica per non spaventare i bambini. E noi, poveri illusi, crediamo alle sue storie mentre il mondo si scompone in pixel di poesia assurda.

E dunque, eccoci qui: rifugiati nel semplice, che è un labirinto con le pareti di gelatina, dove ogni passo è una domanda che si scioglie in risate. Il piacere è questo: guardare l’orologio che mangia se stesso e applaudire mentre il nulla si veste da festa di compleanno. E vissero tutti distorti e contenti. Amen.

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Disprezzare sistematicamente la direzione scelta dalla maggioranza non è segno di intelligenza superiore, ma di un rifiuto preconcetto che può portare a errori tanto gravi quanto quelli commessi da chi si adegua passivamente.

La folla, infatti, non è sempre sbagliata. Spesso le scelte collettive sono il risultato di un processo condiviso, di conoscenze accumulate e di bisogni comuni. Rifiutare qualcosa solo perché è popolare significa ignorare opportunità, idee valide e progressi nati proprio dalla collaborazione e dal consenso. Inoltre, correre sempre nella direzione opposta può isolare, privandoci del confronto e della crescita che derivano dall'interazione con gli altri.

La vera saggezza non sta nell'opporsi per principio, ma nel valutare con spirito critico ogni situazione, riconoscendo quando è giusto seguire una strada battuta e quando, invece, è necessario tracciare un percorso diverso. A volte la folla si sbaglia, altre volte ha ragione: la differenza sta nella capacità di discernere, non in un ribellismo fine a sé stesso.

L'individualità non si misura contro la massa, ma nella libertà di pensare con autonomia, senza schemi precostituiti.

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La realtà è che nulla è garantito, nemmeno ciò che ci sembra più solido. Le relazioni si logorano, le persone cambiano, gli affetti possono svanire nel momento in cui meno te lo aspetti.

Avere paura di lasciare non è un segno di debolezza, ma la prova di un legame autentico. Se qualcosa ci importa davvero, è naturale temere di perderla. Pretendere di vivere senza quel timore significa negare il valore di ciò che amiamo.

Inoltre, pensare che “le cose importanti non se ne vadano” può portare a dare per scontate persone e opportunità, senza impegnarsi a coltivarle. La verità è che tutto richiede cura, attenzione e, a volte, anche la forza di accettare che qualcosa di prezioso possa sfuggirci.

La vita non è una promessa. Le cose importanti possono abbandonarci, ed è proprio questa consapevolezza che ci spinge ad apprezzarle, a lottare per loro e, quando necessario, ad affrontare il dolore del distacco con coraggio, senza nasconderci dietro illusioni di eternità.

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Che le pietre sul nostro cammino possano sempre trasformarsi in opportunità è un’illusione ottimista che ignora la complessità della vita. Non tutto può essere superato o convertito in un vantaggio, e pretendere il contrario rischia di colpevolizzare chi, nonostante gli sforzi, non riesce a superare gli ostacoli.

Alcune pietre sono semplicemente troppo pesanti da spostare, altre feriscono chi inciampa, lasciando cicatrici che non guariscono. Non tutto dipende dalla nostra volontà: esistono barriere sistemiche, ingiustizie e sfortunate coincidenze che non si possono ribaltare con un semplice cambio di prospettiva.

Invece di raccontarci che ogni ostacolo è un potenziale trampolino, forse dovremmo accettare che a volte la strada è bloccata, e che non è un fallimento cercare un altro percorso—o addirittura fermarsi. La resilienza ha dei limiti, e riconoscerli non è segno di debolezza, ma di onestà.

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L’idea che le anime più forti siano necessariamente temprate dal dolore e che i caratteri più solidi debbano essere segnati da cicatrici è una visione riduttiva e, a tratti, romantica della resilienza. La sofferenza può certamente insegnare, ma non è l’unica maestra della vita, e soprattutto non è una condizione obbligatoria per sviluppare forza interiore.

Esistono persone che hanno costruito la propria solidità attraverso l’amore, la serenità, l’esempio positivo di chi le ha circondate. La vera forza non si misura dalle ferite subite, ma dalla capacità di crescere, adattarsi e resistere alle avversità indipendentemente dalla loro presenza. Anzi, a volte è più difficile mantenere un carattere equilibrato e compassionevole quando non si è stati logorati dalle difficoltà, perché significa aver scelto la forza volontariamente, non per obbligo.

Inoltre, glorificare la sofferenza come unico percorso verso la maturità rischia di normalizzare il dolore come inevitabile, quasi auspicabile, e può portare a sottovalutare l’importanza di prevenire ingiustizie e traumi evitabili. La resilienza è ammirevole, ma non dovremmo confonderla con l’idea che sia giusto o necessario soffrire per diventare migliori.

Infine, le cicatrici non sono sempre simbolo di saggezza: a volte sono semplicemente segni di un passato che avremmo preferito non vivere. E va bene così. La vera grandezza sta nel trovare luce anche senza dover prima attraversare il buio.

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L’intensità dei momenti può abbagliare, ma è la continuità che costruisce significato. Una passione fugace può sembrare indimenticabile, ma ciò che resiste alle prove del tempo — un’amicizia che attraversa le stagioni, un impegno che non vacilla, un amore che cresce ogni giorno — ha un valore ben più profondo.

I momenti intensi, per quanto brillanti, sono come fuochi d’artificio: affascinano per un attimo, poi svaniscono. Le cose davvero importanti nella vita sono quelle che restano, che si radicano, che si costruiscono con pazienza. Non servono emozioni travolgenti per rendere qualcosa memorabile: serve presenza, costanza, e il coraggio di restare anche quando l’intensità lascia spazio alla quotidianità.

In fondo, non è difficile brillare per un attimo. Ma durare, quello sì, è raro. E prezioso.

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Amo le cose vere, certo, ma chi dice che la verità debba sempre mostrarsi nuda e cruda? Le parrucche, le maschere, i travestimenti non sono solo finzione: sono arte, gioco, sopravvivenza. A volte, persino una forma di sincerità più profonda.

Perché limitarsi a sorridere per nascondere il dolore, quando si può indossare un volto di glitter e paillettes per trasformarlo in qualcos’altro? La maschera non è solo menzogna: è libertà. Libertà di essere chi non si è, chi si sogna, chi si teme, chi si desidera. Il teatro, il carnevale, il trucco sono linguaggi antichi che dicono: “Ecco un’altra verità, una che forse non osavi confessare.”

E poi, siamo davvero così sicuri che il “vero” sia sempre migliore del “finto”? A volte, una bugia gentile salva un’amicizia. Un costume stravagante rivela più coraggio di mille parole sobrie. Un volto dipinto può essere una dichiarazione, una protesta, una poesia.

La vita non è un tribunale della autenticità. È un palcoscenico. E se vogliamo recitare, danzare, fingersi eroi o mostri, perché no? L’unica maschera inaccettabile è quella che ci costringiamo a portare per compiacere chi grida: “Sii te stesso!” — come se “noi stessi” fossimo qualcosa di semplice, di immutabile, di privo di contraddizioni.

Preferisco mille maschere a un solo volto imposto. Preferisco la complessità alla purezza. Preferisco ridere, fingere, esagerare, trasformarmi. Perché anche nell’artificio, a volte, si nasconde una verità più grande.

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L’idea che i legami voluti dal destino siano indistruttibili è una visione romantica ma profondamente limitante. Attribuire alla sorte o a un disegno superiore la forza delle nostre relazioni significa deresponsabilizzarci, negando il ruolo attivo che ognuno di noi ha nella costruzione, nel mantenimento e persino nella rottura dei legami.

I rapporti umani non sono pietre immutabili, ma vivono e si trasformano attraverso scelte, impegno e reciprocità. Un’amicizia resiste non perché “voluta dal destino”, ma perché due persone decidono ogni giorno di ascoltarsi, rispettarsi e crescere insieme. Un amore dura solo se entrambi i partner lavorano per alimentarlo, non perché un potere esterno lo ha decretato invincibile.

Inoltre, credere nell’indistruttibilità dei legami “predestinati” può portare a sopportare dinamiche tossiche o relazioni vuote, aggrappandosi all’illusione che “se è destino, non può finire”. La verità è che alcuni legami devono finire, per lasciare spazio a percorsi più autentici.

I rapporti più forti sono quelli che scegliamo consapevolmente, con tutte le loro fragilità e imperfezioni. Non è il destino a renderli speciali, ma il nostro coraggio di costruirli, proteggerli e, quando necessario, lasciarli andare.

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Ma io dico: no.

L’uomo non è polvere che il vento disperde. Le idee, l’arte, le scoperte, gli atti di coraggio e persino i gesti più semplici di amore lasciano un’impronta. Le piramidi, la Divina Commedia, la teoria della relatività, una carezza data al momento giusto: tutto questo resiste, si accumula, diventa eredità.

Se anche il singolo individuo è effimero, l’umanità nel suo insieme costruisce, ricorda, avanza. Le orme non sono sempre visibili, ma esistono. Sono nelle strade che percorriamo, nei libri che leggiamo, nelle leggi che ci proteggono. Persino nel dolore c’è una traccia che ci lega agli altri.

Il mondo non passa invano. Noi siamo qui, oggi, a raccogliere il testimone di chi ci ha preceduto e a preparare la strada per chi verrà. E questa è già una vittoria sul tempo.

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Signor Netanyahu, Le scrivo con la rabbia di chi ha visto troppe atrocità e troppa indifferenza. Le scrivo con la voce di chi non vuole tacere, perché il silenzio è sempre colpevole. Quello che sta accadendo a Gaza non è difesa. È genocidio. È crudeltà trasformata in strategia. È potere che si fa vendetta. È un popolo che muore due volte: sotto le bombe e nel disinteresse del mondo. Io non voglio essere complice. Non voglio essere tra quelli che guardano altrove, tra quelli “distratti”. La Shoah non va ricordata solo per l’orrore di un regime, ma anche per il silenzio che la rese possibile. Milioni di occhi videro. Milioni di bocche tacquero, mentre un popolo – il Suo popolo – veniva sterminato. Io non c’ero, ma sono certo che non avrei taciuto. Lei sta usando quella memoria come scudo per giustificare nuove atrocità. Ma non c’è giustizia nella rappresaglia. Non può esserci pace in uno Stato che umilia, affama, annienta. Lei sta portando alla rovina non uno, ma due popoli, e il secondo è il suo. E con questi due popoli Lei sta portando alla rovina l’umanità intera. I bambini non sono “effetti collaterali”. Sono bambini. Come quelli che anche Lei, probabilmente, ha tenuto in braccio. Come quelli che, forse, l’hanno chiamata “papà”. Eppure, li seppellite vivi. Li lasciate senza acqua, senza rifugi, senza sogni. Con franchezza Le dico anche che trovo offensivo il nome dell’operazione militare in corso: “Carri di Gedeone”. Gedeone, nella Bibbia, è il liberatore d’Israele, chiamato da Dio a salvare il suo popolo con giustizia e umiltà. Ma Dio non può guardare con favore chi distrugge, chi semina terrore, chi calpesta l’umanità in nome della vendetta. Non si può evocare il sacro per giustificare l’empio. Non mi rivolgo a Lei da politico. Le parlo da essere umano. Da figlio. Da padre. Perché il dolore dei palestinesi è anche il nostro dolore, è il dolore dell'umanità, ed è insopportabile. Lei combatte “Hamas”, ma colpisce ospedali. Parla di “difesa”, ma rade al suolo quartieri interi. Dice “pace”, ma costruisce muri e barriere. La verità è che ha fatto della paura un mestiere. Dell’odio, un’ideologia. Dell’occupazione, una forma di governo. Un giorno tutto questo finirà. E la Storia sarà lì ad aspettarLa, come aspetterà anche i capi di governo che hanno permesso tutto questo. Non ci saranno medaglie, ma domande. “Dov’era la sua coscienza, signor Netanyahu?” “Dov’era la coscienza di chi poteva fermarLa e non l’ha fatto?” Non si può invocare la memoria dell’Olocausto e, insieme, costruire un’altra catastrofe. Non si possono piangere i morti del passato e ignorare i morti del presente. Io non ci sto. Non voglio restare in silenzio. Perché chi tace oggi, domani non potrà più dire: «Io non sapevo».

Sono un essere umano. Che ha scelto di non essere complice.

  • Vi prego di condividere e rompere insieme il muro del silenzio.

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