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Traiettorie testuali per possibili geografie del conflitto

La prima volta

che prendi un autobus col buio fuori è quando hai tredici anni e sei costretto a andare a scuola, la prima domanda senza risposta che se ne trascina dietro altre in ogni dove e tutti si tirano indietro quando ti fai avanti e li incalzi e usi la tua giovinezza come giustificazione al bisogno dei perché, al più dei responsabili di quest'assenza di risposte

che ci rimani male nell'intimo, per una cosa qualsiasi che sia una delusione o un'ambizione mancata o un tradimento, l'umiliazione d'una prof che si mette sul pari dei tuoi quindici anni e te li fa pagare, segnano a fuoco ma si dimenticano come la polvere. Si rimane scottati e non ci si ricorda come, quando, ma il fuoco ora ci brucia negli occhi, lo teniamo lontano, davanti a noi mentre procediamo tracciando traiettorie

che fai qualcosa che poi ripeterai per lungo tempo, che sia un'abitudine che si radica per sempre o un percorso che si ripete per un paio d'anni tutti i giorni in una città diversa da quella che era solitamente la tua, ecco per quella prima volta non c'è via di mezzo alcuna fra la gloria e l'oblio, la nascita o la decadenza

che t'innamori. all'improvviso, certo, ma piano piano, su quell'autobus e via via che impari a conoscere il tragitto, le facce stanche e le luci elettriche come le scariche che senti e provi invano di domesticare, circoscrivere a un interno di ragnatele e cunicoli entro cui un lanciafiamme spara vampate di fuoco che si schiantano sulle pareti guance di quell'adolescente viola d'un amore senza nome

che sei solo, per la prima volta dopo quella cosa che poi hai ripetuto per lungo tempo, un paio anni sognati per l'eternità, rotti di colpo come un paio d'occhiali che si fracassano per terra. un trauma, di sicuro, ma c'è dell'altro. è quell'idea secondo la quale se non questa, nessun'altra, quella sensazione amara che ti accompagna ovunque e non ti lascia stare, e si fa a sua volta gemma d'una miriade di prime volte che iniziano e si fanno abitudini, alcune salvifiche altre deleterie, tossiche ed empie

che entri in un'aula universitaria, i corridoi e le scale e i bagni, le biblioteche, quelle con gli armadietti e quelle senza. sempre quelle, sempre gli stessi luoghi addomesticati, circoscritti, coreografie smunte e scialbe su marmi bianchi opachi, a terra, e le pareti erano bianche o giallastre, comunque malate. le aule coi banchi in legno, rigidi e lucidi, compresse e inscatolate in una costruzione (quella dei palazzi che stanno fra il 32 e il 38 di via zamboni) assai curiosa, nella sua composizione penetrata a vicenda fra l'una e l'altra biblioteca, l'una e l'altra aula che s'incunea per far posto a un'altra estrapolando spazio da un'altra ancora. la prima volta che entri entri e sei dentro, nessuna intermediazione fra chi entra e chi già è dentro e siede, sulle sedie o al peggio a terra, com'è solito per chi non arriva per tempo

che dai un esame, poi un altro, poi un altro, i risultati importano ma fino a un certo punto, e poi l'ultimo e finisci gli esami – compressando in un paio di righe anni di sforzi e bestemmie, sbatti inutili che sai che lo sono stati, che non ti riguardavano prima e non ti chiederanno altrimenti d'innanzi, in un futuro imprecisato che sembra che non faccia altro che escludere, continuamente, qualcuno e forse siamo noi

che sei a un passo dal traguardo, non ti resta che gestirti responsabilità e lavoro quotidiano in vista del passo che ti vedrà incoronato come dottore (del buco), c'è tempo a disposizione e poi quel tempo passa, quel tempo passa perché è inesorabile che quel – il – tempo passi, scorra e se ne vada altrove, a portarci con sé sulla cresta dell'onda o in balia dei flutti, a cercare di viverci altri momenti primi, che l'unica gioia nella vita qualcuno dice sia cominciare

che ti prendi tempo per pensare al tempo, che ti incammelli a pensare al tempo che scorre, e intanto quello scorre, ai mille modi in cui facciamo morire piccole parti di noi in tempi morti nelle morti che ci circondano, che ci vendono e ci pubblicizzano, ogni benedetto giorno. ogni momento morto trascorso in occupazioni vive, come il pensiero (perché è questa la linea di confine che ci piacerebbe esplorare, in questo spazio virtuale tanto limpido e scevro d'ogni distrazione) che sebbene immobile si contrappone all'inerzia dei sensi. il tempo e la morte