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Sono seduto in questo ristorante, una cameriera orientale sta prendendo la mia ordinazione, un ramen con tofu, alghe, noodles e altre verdure. Attorno a me i tavoli sono pieni in questa sala completamente coperta di disegni manga giapponesi, statuine di gatti cinesi felici, statue in altezza naturale di personaggi di One Piece, collezionabili e stampe, frame di anime nippo, tutto un tripudio di colori brillanti, rossi, gialli, caldi. Archetipi in legno, faretti. Più in là intravvedo l'ingresso e oltre i corridoi gianteschi del centro commerciale della Fiumara di Genova.

Persone passano, ci guardano distrattamente mentre si dirigono alla scala mobile che li porterà alla sala superiore dove ci sono alciuni blockbuster americani, alcuni in 3D. L'ultimo episodio della saga di Avatar. Passiamo, in pochi metri, da un occidente all'altro. Mentre sono lì, seduto, con le mie bacchette di legno, anche loro seriali, a prendere un seme di mais e osservarlo nei vapori del ramen, percepire con la coda dell'occhio il resto della mia famiglia lì, vicino a me, non posso non pensare a come quelle icone, quell'estetica che mi circonda non sia accuratamente preparata per farmi sentire protetto.

Di là dal corridoio ci sono le persone in coda per entrare al Old Wild West, un ristorante che ricostruisce al suo interno l'estetica dei film western dell'inizio della seconda metà del novecento. Torno a concentrarmi sul mio mais: siamo tutti protetti all'interno di estetiche che tendono a regredirci al mondo infantile. Pupazzi, fumetti dai tratti simili a quelli che leggevo da ragazzino, musica pop che – all'osso – rimanda alle cantilene che sentivo con la testa sul petto di mia madre. E che poi ho cantato ai miei figli, con la loro testa addormentata poggiata sul mio petto. Iconografie da film americani o giapponesi ormai del tutto digerite.

Su Facebook ci sono movimenti trasversali di pensiero, radicali. Conservatori, legati a passati e tradizioni mitiche. La cultura territoriale uccisa da un mercato mainstream che – generazione dopo generazione – la sta livellando. Paura degli stranieri, questo piano di devastare la cultura cattolica attraverso l'immigrazione costante di persone musulmane. Quello di smobilitare la famiglia attraverso le teorie gender. È gente che ci crede, guardi i loro profili e molti sono anziani, non disorientati, ma ci sono anche ragazzi, uomini e donne. Difendono il presepe. Persone che potresti incontrare in coda al supermercato e – dietro alla faccia – hanno tutta questa roba, vedono il mondo, con questi occhi.

Difendono il presepe con la stessa passione con cui altri difenderebbero le loro miniature collezionabili di Star Trek o della Marvel. Se mi fa senso essere lì, in mezzo a quella sovrastruttura capitalista di esserini manga e riproduzioni TM di questa o quella multinazionale dell'intrattenimento, e ne provo anche una intima, rapida vergogna, nello stesso tempo non trovo nessuna radice in quegli elementi che i conservatori agitano e tengono nell'intimo del loro appartamento. La cultura territoriale mi appare aliena e ridicola quanto quella – internazionale – che lega molte delle nuove generazioni. Meme, icone underground, mash-up. Se non posso abbracciare, non più almeno, le corna aliene di Lamù come un prodotto di liberazione, non posso nemmeno condividere un filo della paura e della rabbia di molti della mia generazione.

Sospiro, porto il seme di mais alla bocca, mi chiedo da dove venga. Da quale pannocchia. Magari sudamericana. Mastico, ha il solito gusto industriale.

Succederà di nuovo, in questo libro, cioè è già successo, ma nel libro che stai leggendo non ci sei ancora arrivato. Quando io e la mia banda ci ritroveremo nel cuore di Stavanger in un luogo che è nessun luogo. Oppure tutti i luoghi.

Alla fine usciamo, parliamo, confrontiamo questo ramen con tutti gli altri ramen che abbiamo provato a Genova, aggiorniamo la nostra classifica personale. Saliamo o scendiamo scale mobili, facciamo scelte né giuste né sbagliate ma che sono la nostra vita.

[da badaboom, work in progress]