cosechehoscritto

Dopo qualche ora che siamo in spiaggia vado da mia madre e le dico, ok io faccio una passeggiata, lei annuisce, mi dà qualche raccomandazione sui posti dove non dovrei andare e dove dovrei invece andare mentre io mi metto la t-shirt e i pantaloncini e le ciabatte e la saluto e a passi lenti mi dirigo verso il budello in modo da abbandonare la spiaggia, i miei piedi sprofondano nella sabbia bollente, protetti appena dalla plastica delle ciabatte comprate alla STANDA.

A passi lenti e pensosi lascio il calore estivo della spiaggia, sento l'odore della mia pelle mescolato al mio odore di sudato mescolato agli strati di creme solari sotto alle quali – ancora – batte il mio cuore ragazzino. Torno in strada e mi dirigo verso Pietra Ligure.

Non ho alcun interesse ad andare a Pietra Ligure, nulla mi aspetta là. Da Borgio Verezzi a Pietra Ligure ci sono due o tre chilometri e questi chilometri sono occupati da una successione ininterrotta di stabilimenti balneari, gelaterie, bar, e in ognuno di questi posti, in ogni singolo esercente aperto per il pubblico – in questi magici anni ottanta che sto attraversando – c'è un videogioco. Almeno uno. La passeggiata tra Borgio e Pietra non è una vera passeggiata, è una completa mappatura di tutti i videogiochi presenti, a volte dentro al bar, a volte tenuti esternamente in grossi container di metallo verde, lunghi, a forma di parallelepipedo.

Di notte il parallelepipedo di metallo verde è chiuso e incatenato, di giorno viene aperto, viene liberata la quarta parete e noi ragazzini possiamo avvicinarci e toccarli. Se il tipo del bar si è dimenticato di accendere i giochi ci pensiamo noi, quasi tutti i cabinati hanno l'interruttore sul tetto, in alto a destra, e l'interruttore è di metallo, fatto a forma di bastoncino. Quando scatta si sente il rumore dell'elettronica e poi appaiono sullo schermo scritte strane, simboli, segnali che le ROM sono state caricate. E noi siamo lì a vedere tutto questo, a immaginare e a sognare. Io ne ho bisogno.

Io cammino in questa via crucis da Borgio a Pietra e poi da Pietra a Borgio passando – al ritorno – per la grossa via interna che – anche quella – è carica di locali, bar e quindi di videogiochi e mi segno mentalmente i videogiochi che ci sono. Alcuni sono giochi che conosco, a cui ho già giocato in città, ma altre volte trovo rarità introvabili, giochi di cui avevo solo sentito parlare o di cui avevo visto qualche povero porting per home computer. Kangaroo, Lady Bug, Out Run, Pengo, Rally X, Mr. Do.

Passeggiando da Borgio a Pietra entro in questa enorme biblioteca di gaming digitale, mi butto nel colori elettrici, guardo gli altri ragazzini che giocano, che sognano. Esco da Borgio, esco dalla Liguria, dall'Italia. Sono a contatto con un immaginario fantastico che mi trasporta lontanissimo, mi fa sentire una voce e un linguaggio nuovo che nemmeno gli spacciatori di quei videogame capiscono, i baristi che guardano le duecento lire che entrano nel cabinato e non si rendono conto che – monetina dopo monetina – c'è una generazione che li sta abbandonando, c'è una generazione che sta imparando una nuova lingua, nuove forme di divertimento, nuove forme di comunicare e sfidarsi e loro – che alla sera raccolgono quella pentola di monetine pronte per reificarli – ne sono tagliati inesorabilmente fuori.

[da “pécmèn”, Blonk editore, 2020]

ieri notte ero sul divano che cercavo di dormire, avevo problemi di sonno, comunque sentivo i rumori che fanno i gas nel frigorifero e ho pensato che i suoni dell'inizio dell'universo io me li immagino come questi del frigorifero di notte, di giorno magari non ci fai caso, ma di notte nel cuore della notte senti questi suoni improvvisi, chimici, ancestrali, oscuri

e mi sono immaginato, lì nel buio della cucina/salotto, che in ogni frigorifero fosse nascosto un universo che nasce nel momento che infiliamo la spina del frigo e continua la sua esistenza finché il frigo non muore e lentamente inizia a dissolversi

così anche il nostro universo che si espande e poi non si contrarrà mai ma inizierà a guastarsi, parti di universo inizieranno a non essere più e poco a poco tutto si sfilaccerà, ci sarà qualche scintilla e poi tutto si spegnerà nel silenzio

a quel punto credere o non credere in dio o nella Ignis farà poca differenza

[dell'intelligenza umana&aliena]

Tu puoi dirmi è velleitario, è velleitario Venerandi ma la verità è che accanto a chi magari t'appaga, in maniera chiara e solare, c'è chi si mette lì e seguendo percorsi tutti suoi sembra fare tutto l'opposto di appagarti. Sto parlando di cose, di oggetti che nascono per comunicare come raccontare, mettere le cose in versi, in video o in musica.

C'è chi si mette lì e si vede che ha cuore d'appagarti e ci riesce anche bontà sua. E poi ci sono quelli che fanno la stessa cosa, ma sono alieni. Non sono in realtà alieni alieni: arrivano ad essere extraterrestri per percorsi che sono tutto meno che interstellari, ma a un certo punto hanno più interesse a parlare un linguaggio che altro che criptato. Altro che chiavi simmetriche o sbalestrate.

Gli altri – e il sottoscritto Venerandi un po' s'illude di esserci anche dentro diciamocelo – gli altri sembra che non stiano facendo le loro cose per te, per appagare te, ma sembra che stiano facendo la loro cosa per un essere altro, un altro alienazzo come loro sembrano a te. Un alienazzo che però non esiste in carne e spirito: è più un'idea di alieno sceso in terra che parla un linguaggio che non è umano.

Prendere il linguaggio umano, prendere le consuetudini che ci rendono questo linguaggio intellegibile e anche un po' affettivo, e farle a fette prescindendole, anzi niente fette, proprio bypassarle. Prendere come presupposto che il linguaggio abbia una sua forma a prescindere da fatto che sia nato per comunicare roba.

E allora titillarlo per vedere se comunica ancora e se comunica ancora cosa comunica e quella cosa che comunica ancora come è che comunica se noi non stiamo comunicando quanto guardando le cose che comunicano cosa dicono e fino dove possono dire e poi non dire.

Quella cosa – che può sembrare velleitaria – è la ragione d'essere della comunicazione, cioè smettere di comunicare eppure continuare a dire cose ma non sapere esattamente cosa sia quel rumore, tu che le vedi e che le ascolti, mentre io che le metto assieme e le guardo seguendo i miei ragionamenti tutti terrestri ma che tengono in caro conto le stelle, mi nutro di quello che vedo, che sento, che si muove e le creo con quello che ho tra le mani.

oggi ero in moto e pensavo che sono un ateo materialista con una visione del mondo meccanicistica con una spruzzata di scientismo e pessimismo cosmico e ci sto proprio bene

e ho accelerato sorridendo con il mio scooter elettrico nel mezzo di via Piacenza, piena di auto e di gente, case popolari e pensavo guarda l'uomo, che curiosa efflorescenza del mondo è venuta fuori

alberi, natura, umidità, lampi nella notte e questo qua ora gira con un casco rosa, corre frenetico mosso dal capitale, fa lampeggiare microcircuiti e correre l'elettricità a migliaia di chilometri per scorrere via il porno e minare soldi

eppure tutto questo è solo quello che abbiamo, la contemporaneità, un albume fragilissimo e morbido che non dura niente, cari

mia madre oggi mi chiedeva a pranzo, ma tu venerandi non balbetti più? e io la guardavo e le rispondevo, certo che balbetto, cosa ti credi?

brutto a dirsi ma in queste sere in cui sono solo in cucina, con mio figlio davanti che mangia e guarda lo smartphone, la cagna che mangia rumorosa, la gatta che miagola impazzita in calore, io sono qua e penso che il reale è lì e non mi sopravviverà

ecco, ora mi ricordo, sullo scooter ho pensato: peccato che da morto non potrò più sentire i nuovi dischi di Prince, questo è davvero un rammarico

ho immaginato un mondo dove un motore immobile genera musica partendo dalla musica presistente e questa musica si distrugge nel momento in cui qualcuno l'ascolta

non potere più riascoltare una canzone ma solo nuove generazioni da canoni che si nutrono delle loro stesse invenzioni

suzie q. mi chiede come mi viene in mente certa roba e ci mette un sacco di smile e io le dico che è nella mia natura e sono curioso di vedere cosa succede, come va a finire

oggi ho raccontato a terzogenita di quando una volta ho spezzato il cuore a una ragazza, migliaia di anni fa, le ho spiegato che da ragazzino ero molto immaturo e spaventato e mia figlia non ha detto niente, ha continuato a guardare oltre il vetro del parabrezza

ma quello che non le ho detto è che ero immaturo e spaventato, vero, ma non tanto diverso da come lo sono adesso

a saggiare il vaso con l'unghia sotto la carne si trovano gli stessi guerrieri che ci accompagnavano nelle notti preadolescenzali, gli stessi tamburi e la voglia di distruggere e essere annientati

Oggi sono andato a nuotare, ho ripreso a fare del nuoto libero omeopatico, mi butto in acqua e muovo gli arti sfruttando le onde delle donne che fanno ginnastica nella corsia a fianco alla mia. Uso degli occhialini da sole che deve aver comprato Elettra quando nuotava al mare, così che quando me li metto sembra che sia notte.

Oggi ero lì che nuotavo e pensavo a Leopardi, pensavo che secondo me Leopardi non è pessimista per niente. Questa cosa del pessimismo storico e cosmico sono cazzate. Leopardi non era pessimista, era solo realista. La vita è davvero il male. Il fine dell'universo è il male. Ciascuna cosa esistita è il male. Eppure, nonostante questo, vado alla grande, ho fatto anche dieci vasche a stile libero.

ll concetto che mi piace di Leopardi è quello dell'immaginazione. Lui dice che – in pratica – l'uomo non capisce che l'immaginazione è solo immaginazione, ma la confonde con la “facoltà conoscitrice” e quindi considera i sogni dell'immaginazione come cose reali.

E mentre sono lì, in questa notte artificiale che muovo le gambe e le braccia e le sento strapazzate dal cloro, penso che altro che pessimista. Da qui è partito l'uomo: immaginarsi delle cose e crederle reali. E fingendo che fossero reali viverci assieme finché – ad un certo punto – ma questo Leopardi non lo dice è una mia idea eh – finché ad un certo punto queste illusioni le ha raggiunte davvero. E quell'immaginazione è diventata sul serio conoscenza.

Diritti civili, parità, contratto sociale, le mie prossime due vasche a rana. Erano solo una nostra immaginazione ma ci abbiamo creduto così tanto che le abbiamo raggiunte davvero.

Arrivo al bordo vasca e mi aggrappo al cemento, sono sfinito. Faccio per uscire e guardo da quante ore sto nuotando.

Dieci cazzo di minuti. Osservo l'orologio al quarzo rosso che troneggia sopra i nuotatori serali. Sto nuotando da dieci cazzo di minuti, mi sembra di essere entrato sei ore fa. Rinuncio ad uscire. Mica per altro, ho pagato.

Mi sembra una vita che sto nuotando e ogni vasca perdo qualcosa, ieri mentre scrivevo con la penna mi sono reso conto che mi tremavano impercettibilmente le dita. Ogni vasca perdo qualcosa e guadagno qualcosa: ogni tanto vado sott'acqua e guardo i tunnel subacquei che ho scavato con il mio passaggio.

Non v'è altro bene che il non essere, non v'ha altro buono che quel che non è, le cose che non son cose. “E questo sarebbe un pessimista?”, penso. Un pessimista non dice queste cose splendide, un pessimista si lamenta che invecchia, scatarra nella doccia comune, guarda male i ragazzi che scazzano negli spogliatoi. Un pessimista non fa lo splendido con il mondo e i suoi significati.

Esco dall'acqua come Venere durante un'incauta gravidanza. Corro all'accappatoio a passi tardi e lenti, me lo metto addosso, l'accappatoio, per nascondere la pancetta che – potessi aspettare – aspetterei.

Supererò la prova costume, penso tra me e me mentre – negli spogliatoi, indosso la tuta azzurra e rossa, la S gialla, lego bene il mantello dietro e stringo forte l'addome per sentire la mia piccola kriptonite crepitare.

— salve, sono venerandi, c'è un tavolo? — certo, le hanno già spiegato come funziona qui? — immagino che mi siedo e mangio — ah ah — è un ristorante, no? — ci piace definirci una “officina degli alimenti” — una officina degli alimenti — sì, è il nome del locale — ma avete le frese? — prego? — no, dico, nelle officine ci sono le frese, saldatori, roba in genere tagliente e sporca che ho difficoltà ad associare al cibo — capisco, noi abbiamo una rifilatore per profilati in alluminio — è già qualcosa! — ma non si può usare, vede la usiamo come bancone — non avevo intenzione, perché in realtà ho fame — capisco, senta, mi dica cosa vuole che vedo di portarglielo — avete un menu? — può usare il qr—code — il qr—code? — sì può usare il qr—code — sa una cosa? — cosa? — io scrivo poesie — ah — ma non qua a Milano, a Genova — capisco — e una volta mi hanno chiesto, “ma lei, venerandi, cosa è che vuole ottenere con la poesia che ancora non ha ottenuto?” — e lei cosa ha risposto? — “esclusi i soldi?” — e loro? — mi hanno detto, “no, no, inclusi anche i soldi” — e lei cosa ha detto allora? — “allora i soldi” — capisco — questo aneddoto sta a significare che non ho un cellulare atto a scansire il qr—code. Oppure non ho rete. Oppure ho paura che prendendo in mano il cellulare appaiano i messaggi di chi mi scrive nelle chat. O che mi scappa il dito e spengo di nuovo Meta — capisco — quindi vado alla cieca, mi porti un Negroni con delle noccioline — ehh — non fate il Negroni? — qua facciamo dei cocktail di nostra creazione — te pareva — se potesse leggere il qr—code, io... — aspetti — eh? — improvviso — ... — “esproprio proletario” — ... — non avete un cocktail chiamato “esproprio proletario”? — temo di no — peccato — ribadisco che con il qr—code... — “l'apericena del coworker” — ... — non avete un “l'apericena del coworker”? — la cosa sta diventando imbarazzante — “industrial chic” — ah quello ce l'abbiamo! — ottimo, due — però non abbiamo le noccioline — te pareva — però... — aspetta — eh — “mandorle norrene con spruzzata di pistacchio canadese su gherigli di sale tibetano” — chiedo in cucina — grazie

[dell'intelligenza artificiale e del progresso della tecnologia]

Ci sono questi libri che ho con me dell'Enciclopedia della Fantascienza, di cui parlo spesso, lo xanadu del mio immaginario fantastico inizio anni ottanta, in cui si profila un mondo in cui il lavoro viene svolto alle macchine o dalle intelligenze artificiali lasciando tempo libero all'umanità di rilassarsi.

In realtà nella mia esperienza in campo lavorativo con macchine & informatica, l'aumento delle capacità di calcolo o di interazioni della macchina non ha mai aumentato di un minuto il mio tempo libero dal lavoro, anzi, in genere l'opposto.

Quello che è successo, finora, è che l'aumento di produttività di uno strumento informatico semplicemente aumentasse il ritmo di produzione: se prima in un'ora terminavo un lavoro, oggi ne termino dieci, magari con meno cura rispetto ad un tempo.

Ma il carico di lavoro mio è sempre restato immutato man mano che l'informatica diventava pervasiva e che occupava ogni spazio che mi circondava. Il sistema capitalista trasformava la possibilità di avere più prodotto in una realtà produttiva.

Quindi oggi capisco chi ha paura dell'intelligenza artificiale, in ambito di generazione immagini o nel campo delle traduzioni. Le difese di 'si creeranno nuovi posti di lavoro per chi saprà capire per primo le potenzialità di questi strumenti' sono vere, ma non consolatorie: i nuovi posti di lavoro saranno radicalmente diversi di quelli che verranno dismessi e – probabilmente – saranno meno e remunerati meno.

Anche questa volta l'Enciclopedia della fantascienza ci resterà male: l'intelligenza artificiale non salverà l'umanità dalla disoccupazione, dalla frenesia lavorativa e dall'abbassamento del punto di non ritorno tra benessere e sostentamento, ma verrà integrata e assorbita in un sistema economico produttivo che cercherà di trarre in massimo beneficio al minor costo possibile, come è sempre stato.

Di contro questo sistema funziona perché funziona. L'informatizzazione in questa sua frenesia nel produrre di più abbassando il più possibile i costi di produzione crea di fatto possibilità che un tempo erano impensabili. Se giochi al suo gioco il capitalismo informatico inizia a trasudare una sorta di democratizzazione di base.

Quando qualche anno fa lavoravo a quintadicopertina, nei primissimi mesi di lavoro in cui io e Elettra allestivamo il tutto, ero a un certo punto rimasto stupito del fatto che in qualche mese di lavoro un team di due persone avesse creato libri interattivi, messo su un sito online, uno store indipendente e avuto anche un discreto riscontro in termini di comunicazione online.

Nel corso dei primi anni lo stesso team di due persone avrebbe integrato i bitcoin, il pagamento via carta del docente, lavorato con la comunicazione video e social. Fare la stessa cosa solo qualche decennio prima avrebbe necessitato di una squadra e di risorse di ben altra portata.

Così oggi non posso non pensare che questo furto che le intelligenze artificiali hanno fatto a danno dei materiali di addestramento ha dato via a uno strumento generativo e creativo che è – potenzialmente – democratico. Posso interagire con linguaggio naturale con un software che restituisce informazioni, testo e immagini che un tempo non mi sarei potuto permettere.

Aumentano, ancora una volta, le possibilità di creare nuovi prodotti a costi, ancora una volta, più bassi rispetto a prima, accessibili a un pubblico molto più vasto.

Non è forse quello che volevamo fare da sempre, quando inserivamo i nostri comandi in BASIC sugli home computer a basso costo che entravano nelle nostre case?

Ma a scapito di chi?

c'è stato un periodo nella mia vita in cui ho lavorato in un ufficio a fare cose del tutto ripetitive, tipo contabilità, con un contratto a tempo indeterminatissimo, e mettevo questa musica per astronauti, si chiamava Blue Mars, tastiere, echi, e in quelle mattine, tutte identiche le une alle altre, sembrava che il tempo non esistesse più, che tutto potesse continuare in eterno

tasto dopo tasto, invio dopo invio infilavo dati nel computer, stampavo lettere, ascoltavo musica astrale e tutto – fuori da quell'ufficio – era alieno. Ero circondato dal nulla, i colori sottili delle nevrosi dei miei colleghi, i manuali grigi di Windows NT Server, i calendari omaggio dei committenti.

Quando uscivo da quell'ufficio il tempo riprendeva a scorrere, dolorosamente, lo strappo era letale. La realtà irreale dell'ufficio anestetizzava: una criogenia dell'intelletto che prendeva tempo, si dilatava nello spazio esterno al pianeta, fino alle porte del cosmo.

Ripensandoci oggi mi facevo le mie dosi di niente, ogni giorno una dose di niente protetto dal muro invalicabile del sistema sanitario, della tredicesima, della pausa caffè e del sortilegio. Una parte di me era succube e allineata, si godeva l'eternità di quelle giornate. Ingoiava il niente, le umiliazioni interne, la prassi.

Una parte no, pianificava fughe astratte. Irreali e irrealizzabili, forse per consolare la prima. Faceva microribellioni omeopatiche. Fingeva di non essere lì, inventava altri sosia di Fabrizio che sovrascrivevano quello lì nell'ufficio, seduto, a inserire dati e sentire musica spaziale.

Basta poco per finire dentro la meccanica del basso benessere. Assuefarsi alla cecità, credere che la ripetizione seriale sia davvero eterna. Che a ogni mattina ne seguirà sempre una ancora identica il giorno dopo. La fede nell'insensibilità.

Stasera ho messo per caso della musica russa cyberpunk e per un attimo ho risentito quell'atmosfera protetta, dolorosa. Il tempo attorno ha smesso di muoversi e ho cercato istintivamente riparo da quello che avevo attorno: la vita, il tempo inesorabile, l'età.

Una malia che mi promette ancora quello che invece divora nel silenzio.

[diario dal tavolinetto di vetro]

Pensavo ieri guardando gli struzzi, le gnu, gli sciacalli che vanno a bere alla pozza e restano lì immobili a guardare la vastità del deserto, abbassano la testa per leccare blocchi salini, si fanno scaldare dal sole, ecco, pensavo che sembravano proprio mob di un videogioco nati per essere uccisi e aumentare skill.

La visione religiosa del mondo creato per l'uomo parte da questa radice predatoria con cui conviviamo e che ci portiamo dentro nella vita di tutti i giorni. I diritti umani non sono un diritto, sono una specie di fragile patto tacito collettivo per mettere sottotraccia questa natura predatoria o almeno organizzarla perché vada a colpire qualcuno di abbastanza diverso o abbastanza lontano. Figuriamoci i diritti animali o ambientali.

Sempre ieri finivo in questo video postato da un profilo dove si vede – ripreso da un drone – un soldato russo in una casa distrutta dai bombardamenti, mentre sta facendo presumibilmente sesso e dal drone viene fatta partire una bomba che lo centra in pieno. I commenti li lascio immaginare. Lo scrivevo qualche giorno fa in un mio scritto in versi:

“cercando in rete video di gente che muore male si trovano — nel digitale tutto non muore mai — “

Ho sempre provato un umano imbarazzo nelle riprese di esseri che muoiono che circolano in rete, animali, bestie, uomini, nemici. Anche qua l'istinto predatorio. Il video della morte di un soldato usato come propaganda bellica e fatto circolare tra i social. L'idea è che il soldato russo, in quanto invasore, perda una parte dei suoi diritti umani.

Mi sono chiesto se gli stessi che condividevano ieri il video avrebbero condiviso con lo stesso umorismo video di italiani ammazzati in Libia o in Somalia. O video di italiani ammazzati in Russia. Cioè, al di là del paradosso: quanta distanza è necessaria perché ci si renda conto di quello che sta succedendo e di quello che si sta facendo.

È facile fare questi ragionamenti a migliaia di chilometri dal deserto del Nabir o dalla linea di guerra dove la gente muore ora. Nel proprio salotto davanti al proprio computer.

Ma è proprio perché c'è questa distanza che è possibile ragionare; come possiamo ragionare sulla nostra storia meglio quando c'è una certa distanza tra quando succede la cosa e quando la andiamo ad analizzare.

Il digitale aumenta questa percezione alterata del reale. Così potente e così disturbante: oggi, alle sei del mattino, guardavo l'alba sorgere nel deserto del Nabir, affascinante, e poi alzavo la testa e mi rendevo conto che avevo le persiane di casa mia ancora chiuse.

Come un insetto davanti alla mia pozza elettrica.

l'idea è che l'umanità scomparirà, così, si autodistruggerà da sola, aumenterà l'inquinamento e gli uni diranno che non si faranno dettare l'agenda dagli altri e gli altri diranno che non si faranno dettare l'agenda dai primi e l'umanità supererà il punto di non ritorno, ha anche un nome tecnico, adesso non me lo ricordo, non sto tanto bene stasera, dormito pochissimo, e comunque l'umanità sparirà

come è poco importante, magari un virus scappato da un laboratorio, magari una centrale atomica riconvertita a rave party in cui uno come me e te ma ubriaco perso preme un pulsante per errore, tipo cade su una ragazza con i tatuaggi vikinghi e iniziano a limonare forte e con un gomito danno un colpo a un pulsante e le caldaie dell'atomica diventano incandescenti e esplode tutto e si innescano una serie di esplosioni a catena e il mondo muore, oppure più semplicemente l'umanità diventa progressivamente abitata più da merde che da persone tolleranti, sempre più merde sempre meno persone tolleranti e alla fine come gli zombie, come gli zombie, oppure altre cose, tipo una modifica ai termini e condizioni d'uso di Facebook che tutti cliccano senza leggere e il mondo esplode

oh, c'era scritto nero su bianco, non voglio dare la colpa a Meta, ma la gente non legge e clicca, non legge e clicca

comunque secondo me il mondo continua lo stesso, moriamo noi umani ma una razza si salva e sono i delfini, non come li conosciamo adesso perché il mare sarà una pozza di acidi e materiale tossico che abbiamo sversato in mare, così i delfini si salveranno ma non volando in cielo come diceva quello scemo, quello americano che tutti lo adorano e io non ho il coraggio di dire che non lo amo perché poi mi ammazzano, ma secondo me fortemente sopravvalutato, comunque, niente delfini che saltano in alto, cristo che idiozia, ma vanno in basso, verso le profondità marine, perché non sono stupidi

e il primo delfino che scende, scende, scende va un basso e poi inizia a sudare, sente la pressione addosso e pensa che sia il lavoro o la famiglia o il fatto che tutti gli altri dipendono da lui che ha scelto di essere il maschio leader oppure il fatto che ne viene da una grossa delusione affettiva e sente questo senso di oppressione e continua a scendere e poi crack, implode

lui pensava fosse l'anima invece era la pressione oceanica, l'opposto di Freud se ci pensate, tutti credevano che le malattie nervose fossero pezzi di carne che non funzionano e Freud dice eh no, guardate che è l'anima, cioè l'io, il super io, l'irrazionale, l'inconscio, tutta roba software non hardware, comunque gli altri delfini quando vedono il delfino alfa che implode si fermano, tornano verso l'alto e dicono eh cazzo, finiamo come quei miliardari che andavano a vedere le navi relitto con mezzi inadeguati, dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo imparare dai loro sbagli, dobbiamo farci crescere le ossa

perché i delfini dentro non sono fatti di lische di pesce, ma di ossa e quindi iniziano a lavorare per indurire le loro ossa e il loro esoscheletro in modo da sopportare le pressioni delle profondità oceaniche ed è un lavoro millenario, sto proprio male stasera, come un mal di testa, forse ho dormito poco, alle cinque ero lì sveglio e stanco, stanco e sveglio, mi sono alzato al buio ho bevuto un po' d'acqua, ho aperto il portatile, ho cambiato il pubblico predefinito di un post da “tutti” a “solo io” e un altro da “solo io” a “tutti” ho chiuso il portatile, sono tornato a letto e sono sprofondato lentamente nel materasso, sempre più in basso, finché la pressione del letto materasso memory ha schiacciato i miei organi, gli arti, il corpo e l'anima in seconda battuta