c'è stato un periodo nella mia vita in cui ho lavorato in un ufficio a fare cose del tutto ripetitive, tipo contabilità, con un contratto a tempo indeterminatissimo, e mettevo questa musica per astronauti, si chiamava Blue Mars, tastiere, echi, e in quelle mattine, tutte identiche le une alle altre, sembrava che il tempo non esistesse più, che tutto potesse continuare in eterno

tasto dopo tasto, invio dopo invio infilavo dati nel computer, stampavo lettere, ascoltavo musica astrale e tutto – fuori da quell'ufficio – era alieno. Ero circondato dal nulla, i colori sottili delle nevrosi dei miei colleghi, i manuali grigi di Windows NT Server, i calendari omaggio dei committenti.

Quando uscivo da quell'ufficio il tempo riprendeva a scorrere, dolorosamente, lo strappo era letale. La realtà irreale dell'ufficio anestetizzava: una criogenia dell'intelletto che prendeva tempo, si dilatava nello spazio esterno al pianeta, fino alle porte del cosmo.

Ripensandoci oggi mi facevo le mie dosi di niente, ogni giorno una dose di niente protetto dal muro invalicabile del sistema sanitario, della tredicesima, della pausa caffè e del sortilegio. Una parte di me era succube e allineata, si godeva l'eternità di quelle giornate. Ingoiava il niente, le umiliazioni interne, la prassi.

Una parte no, pianificava fughe astratte. Irreali e irrealizzabili, forse per consolare la prima. Faceva microribellioni omeopatiche. Fingeva di non essere lì, inventava altri sosia di Fabrizio che sovrascrivevano quello lì nell'ufficio, seduto, a inserire dati e sentire musica spaziale.

Basta poco per finire dentro la meccanica del basso benessere. Assuefarsi alla cecità, credere che la ripetizione seriale sia davvero eterna. Che a ogni mattina ne seguirà sempre una ancora identica il giorno dopo. La fede nell'insensibilità.

Stasera ho messo per caso della musica russa cyberpunk e per un attimo ho risentito quell'atmosfera protetta, dolorosa. Il tempo attorno ha smesso di muoversi e ho cercato istintivamente riparo da quello che avevo attorno: la vita, il tempo inesorabile, l'età.

Una malia che mi promette ancora quello che invece divora nel silenzio.