La settimana scorsa a Genova c'è stato il derby, una partita di calcio tra le due squadre di calcio locali. Lo stadio di Genova è felicemente annegato nel cuore della città, con il culo proprio sotto le alture franose di Marassi alta e la pancia sul greto esondante del Bisagno.

Quando a Marassi c'è la partita, qualunque partita, un pezzo della città viene – nel migliore dei casi – messo sotto sequestro. Auto posteggiate rimosse, supermercati che non possono vendere cose con cui i tifosi potrebbero farsi del male, massa di gente che cammina per strada, arterie chiuse, eccetera.

Con il derby è semplicemente peggio. Questi cosplayer della guerriglia da settimane si preparano allo scontro in piazza. Lo sa la polizia, lo sanno i negozianti, tutto viene serrato e si dà modo di sfogarsi.

“Fabrizio – mi dice mia madre – eravamo uscite con le amiche per festeggiare il compleanno di una nostra conoscente, entriamo, ci sediamo e dopo un po' ci dicono che ce ne dobbiamo andare. Chiudono tutto, c'è la gente che si mena. Per strada non sappiamo dove andare, sentiamo in lontananza il rumore come di esplosioni. E torniamo a casa in mezzo a questi qua, ma tu dovevi vederli Fabrizio. Tutti ubriachi. Gente sdraiata per terra con delle spranghe di ferro. Mi chiama mia sorella che stava tornando a casa e la polizia l'ha fermata. Strada chiusa. Non l'hanno fatta manco tornare a casa. Non sa dove andare. E io guardavo questi ragazzi e pensavo, ma le loro madri lo sapranno in che stato sono i loro figli?”

E io sorrido amaro e le dico, guarda mamma, facile che le madri siano lì in mezzo. Mia madre scuote la testa, è impossibile. E le racconto allora di quando, poco tempo fa vedo dei bambini vestiti con i colori della squadra del cuore che passano con le loro madri e i bambini iniziano a dire le peggio cose, roba violenta e grossa verso la squadra avversaria. E le madri, dietro, che si guardano e ridono ammiccando.

“Ma questa – dice mia madre – è gente che del calcio non gliene frega niente. Non la vedono nemmeno la partita”. La guardo, in mezzo, le rispondo, c'è gente per cui la squadra di calcio è una fede. Una fede, non scherzo. Gente che ti dice che loro padre era tifoso, loro sono tifosi e stanno addestrando i figli a essere come loro. Una fede parallela a quella, morente, cattolica, ma con molta più energia e con una messa domenicale oggettivamente più coinvolgente.

In più, dentro, ci sono dei bei gruppi fascisti, di quel fascismo da Uniposca nero. L'altro giorno salivo sulle alture dietro Marassi e vedevo le mura di contenimento in cemento armato che tengono su gli infelici quartieri popolari costruiti il secolo scorso. Avevano dipinto tutte le mura con i colori della squadra del cuore, i guerriglieri, con tanto di logo, solo che a un certo punto i colori della squadra sparivano e il logo appariva ancora, ma questa volta su un lungo fondo uniforme, nero, una decina di metri di mura di contenimento dipinte di nero e tutto assumeva un significato politico più chiaro.

“E capisci, io poi dovrei dare i sei, i cinque di condotta a questi ragazzi che vedono ogni settimana lo stato civile messo in disparte, i cassonetti bruciati, la digos per strada, gli elicotteri che ancora a mezzanotte girano sopra di noi. Perché questa farsa continua a fare comodo. Meglio la fede nel calcio che – chessò – incazzarsi perché non siamo felici, perché c'è chi sta troppo meglio di noi” dico e poi mi fermo perché sto ripetendo delle cazzate, dei luoghi comuni, veri, ma inutili.