[l'arrivo dei robot giapponesi]

Nel frattempo, in contemporanea al Pac-Man ma dalla parte opposta del mondo, erano arrivati degli enormi golem nella mia vita, dei giganti di metallo placcati, dei soldati che camminavano sulla terra portando dietro una nuova mitologia. Io li guardavo come ipnotizzato, li vedevo uscire dal mare, emergere da parchi giochi che si dividevano in due, sfociare da piscine come Veneri nippo. Si ergevano contro il cielo azzurro, mi fissavano e mi dicevano questo portento potrebbe essere tuo, sei tu che potresti muovere questo colosso d'acciaio.

Allora io correvo fuori di casa, scendevo gli scalini di casa mia, saltavo per la strada, l'unica strada che – come un intestino – univa il capoluogo con il paese dove abitavo. Correvo in discesa fino alla Bruna che era – di fatto – il ferramenta di tutto il paese, per chilometri e chilometri.

Non era propriamente un negozio, era piuttosto un antro, e la Bruna era una donna dagli occhi furbi, i capelli neri, capace di dispensare oggetti di ferramenta indispensabili per un ragazzino della mia età, soprattutto i chiodi che erano alla base delle baracche che noi del C.D.A. andavamo a costruire di nascosto in mezzo alle sterpaglie. Per quanto tu abbia pochi soldi, anche duecento lire, ci esce sempre una dignitosa manciata di chiodi. Una manciata di chiodi e una pietra sono sufficienti per costruire una baracca.

La pietra serve per piantare i chiodi. Era il Minecraft del mondo reale, costruivamo spazi che prima non esistevano, modificavamo lo spazio. Entravo dalla Bruna, la salutavo e lei mi chiedeva se volevo dei chiodi e io – quella volta – dicevo di no, le spiegavo che mi serviva dello stucco per vetri. “Ti si è rotto un vetro?” mi chiedeva lei, e io le rispondevo che no, mi serviva per una cosa mia. “Ah” faceva lei, prendeva un pacco, lo apriva e dentro c'era lo stucco, grigiastro/marroncino, umido. La Bruna me lo vendeva a fette, come il gorgonzola. “Quanto ne vuoi?” mi chiedeva e io le rispondevo che me ne serviva un po' perché dovevo farci i robot cattivi.

La meraviglia dello stucco per vetri è scoprire che esiste un composto che costa molto meno del Pongo, è meno rassicurante, puzza, ogni tanto ci trovo dentro come dei capelli un po' sospetti, ma è malleabile quanto il Pongo e che posso averne tanto.

Pagavo il dovuto e tornavo felice a casa con il mio panino di stucco per vetri, andavo nella mia camera, mi sedevo nella mia piccola scrivania, spostavo il binocolo e i libri sulle esplorazioni spaziali, e sfasciavo tutto lo stucco. Restavo davanti al pacchetto aperto e poi ci finilavo dentro le mani, iniziavo a costruire i robot cattivi.

I robot cattivi sono gli antagonisti dei robot veri, quelli di plastica e metallo che mi sono comprato, visti in TV™, come Gundam o Trider G7 o altri robot imitazione giapponese. Quelli cattivi che mi costruivo io non avevano le forme di quelli della TV, erano robot che mi inventavo io, con le braccia, le armi, il coraggio. Tagliavo lo stucco a pezzettini e poi li sfregavo contro il banchetti per fare dei cilindri oblunghi, delle specie di vermi, che poi diventavano le braccia e le gambe dei robot cattivi. Poi con un pezzo più piccolo facevo una sfera, che era la testa, e poi il torso, tozzo.

Quando avevo fatto il mio piccolo esercito di robot cattivi di stucco per vetri, tiravo fuori i robot ™, quelli comprati nei negozi, quelli visti alla tv. Li mettevo vicino a quelli di stucco per vetri e iniziavo la battaglia.

Era, in genere, un massacro.

Le armi a molla dei robot ™ si infilavano nella carne/stucco di quelli cattivi, creavano fori disumani, si staccavano le membra, i relitti si agitavano ancora mutilati e combattevano fino allo stremo la loro inutile battaglia, senza testa, tronconi poggiati per terra che subiscono il sadico attacco degli eroi tv. Niente rimane vivo. I miei robot di stucco per vetri erano votati al martirio e alla morte, il loro unico scopo era far risaltare ancora di più il coraggio omologato dei robottoni nippo.

Alla fine raccoglievo tutti i cadaveri, le carogne aliene rimaste sulla mia scrivania e le impastavo, facevo una grossa palla appiccicaticcia da cui poi iniziavo di nuovo a staccare e creare membra, sta nascendo una nuova legione, altri orrori stanno per attaccare la terra, una nuova armata di guerrieri di stucco per vetri sepolta assieme al suo imperatore sta per invadere il nostro pianeta difeso ancora dai marchi registrati delle tv locali. E continuaVO ancora, nuove battaglie seguono, nuove sconfitte finché mia madre non mi dice che è l'ora, che tra poco alla TV inizia Danguard, inizia Daitarn III, inizia Atlas Ufo Robot, inizia Mazinga. E io scattavo, come una molla, verso questi automi vuoti che mi attendevano nell'ombra del tinello.

Erano arrivati all'improvviso, tutti quelli della mia età avevano iniziato a parlarne. Un cartone animato che era diverso da tutti gli altri cartoni animati per bambini, un cartone animato che fa a pezzi Barbapapà, che distrugge gatto Silvestro, che divora quel coglione di Scooby Doo. È la storia di un ragazzo che guida un robot alto metri, difende il mondo da alieni verdi, ambigui e deformi: è Actarus, è Goldrake, è Trider G7, Starzinger, Mazinga Z, il Grande Mazinga, Daitarn III, Jeeg robot d'acciaio e ancora una truppa di irresistibili ragazzine complessate ma coraggiose Candy Candy, Anna dai capelli rossi, Charlotte, Ransie la strega. Mimì Ayuhara.

Era arrivato tutto un immaginario estraneo, una nuova forma di mitologia, di sofferenza, di speranza. Una nuova iconografia che prende spazio nei miei giochi, che entrava in casa mia in forma di robot, giornalini, mitologie. Una estetica che in quel piccolo paesino di provincia era lontana anni luce, lontana dai campi coltivati, dalla tradizione, dalla mentalità contadina del dopoguerra. Io aveva la tessera “amici di Goldrake”. Io ero amico di Goldrake, lo sognavo mentre camminavo nei campi.

La mia armata di cattivi fatti con lo stucco per vetri era la versione non commerciale di questo mondo, quello che ogni ragazzino creava di suo. Sporcavo me stesso con quello che sognavo, con le mie ansie e le mie fragili gioie senza nome, modificavo e sporcavo quel prodotto di mercato così perfetto e dopo un po' ne creavo uno mio. Un mio universo, una mia confederazione, una mia patria da difendere, i miei eroi. Disegnavo astronavi, robot che combattevano.

Il mio robot si chiama Velocikid. Non so perché, lo ho creato un giorno e poi ho continuato a farlo per mesi, anni, riga dopo riga lo disegno su un foglio e poi metto vicino a lui i cattivi. Poi Velocikid entra in azione e fa partire delle righe dal suo corpo che colpiscono i nemici e io con la penna disegno tutte le esplosioni, tutto il dolore inflitto. Anche Velocikid soffre, perde gambe, arti ma non muore mai, la testa si salva sempre. La testa è un astronave.

Disegnai Velocikid centinaia di volte, durante tutte le elementari e buona parte delle scuola medie, lo disegnavo a casa, di nascosto sotto al banco, lo facevo vedere a Marco piccolo, ai pochi che potevano capire. Ancora adesso che sono qua che trascrivo tutto quello che ho inciso dentro di me, ancora ora posso prendere un foglio e tracciare la sagoma di Velocikid su un foglio, l'ho appena fatto mentre scrivevo. È ancora lì, goffo, sgraziato, sembra uscito dagli schizzi che faccio con determinazione alla fine degli anni settanta, ora, in questo momento che ti sto raccontando.

In questo momento sono sul banchetto in camera mia, ho messo via la mia palla di stucco per vetri e preso il foglio e disegnata la testa di Velocikid, l'antenna che gli spunta tra le due punte che ha in testa, il corpo ellittico, le armi sul petto e quella specie di foro-vagina altezza pube da cui lancia un raggio mortale. Velocikid è la mia versione del Giappone, è una cosa vergognosa che avrei dovuto dimenticare e che invece mi è entrata dentro ed è restata lì nella stanza vuota enorme che ho dentro e che non si riempie mai e non si riempirà mai più a questo punto.

[da PÈCMÉN, Blonk Editore, 2020]