Sono con il portatile linux in pizzeria che aspetto le pizze e scrivo e ascolto quello che sento e trascrivo. C'è animazione in ogni cosa, le luci elettriche danno una dimensione a questa serata di dicembre che ha tutta l'artificialità umana. Mi chiedo cosa succederebbe se si staccasse l'elettrico, ora. Una vallata nera, scossa da un vento gelido. I pilastri di cemento immersi nella terra. Le tane intonacate, piastrellate in gres. La gente chiusa in casa, avvolta nelle coperte, abbracciata per sentire meno il gelo che arriva da fuori. I ragazzi della pizzeria prendono in giro la ragazza che lavora con loro. Le dicono che non c'è mai. Che è stata assente per un sacco di tempo. Che non aveva voglia di lavorare. La ragazza risponde a tono, poi ridendo dice, guardate che io dovevo laurearmi! Non dovrei nemmeno essere qua, dovrei essere a lavorare da un'altra parte. Io sto lì, come un lurker della vita e trascrivo tutto. “Scusi ma dovrei prendere il casco” mi dice a un certo punto il portapizze e io dico, ci mancherebbe, e prendo il mio portatile e mi sposto.
Di notte apro gli occhi, sono le quattro. Ho un mal di testa che mi picchia dentro e un fischio. Non sono i soliti acufeni, è proprio un fischio continuo. Resto immobile sotto le coperte come un animale ferito. Prendere appunti, penso. Mi verrà utile quando parlerò di un personaggio che soffre. Molte lettere se premute con il tasto control creano caratteri invisibili all'occhio. Una vita che prendo appunti per quello che potrebbe succedere ai miei personaggi e invece queste cose succedono a me. Ad un certo punto arriverò alla fine e io coinciderò con il personaggio. Sentirò davvero male come lo si sentono nei romanzi o nelle fiction tv, in maniera ragionevole.
O smetterò di prendere appunti.
La mia medico dice che le analisi vanno bene e che probabilmente è lo stress. Sto male perché sono stressato. Ho ansia. Le rispondo che è stare male che mi mette stress. Che se stessi bene, starei benissimo. Lei risponde che – no – è proprio l'ansia e lo stress. E chiusa lì. A casa mi siedo, mi concentro e cerco di non essere stressato. Chiudo gli occhi. “Non devi essere stressato, Venerandi” mi dico. “Basta con queste ansie” aggiungo. Riapro gli occhi. Sto ancora male.
Parlando con i colleghi scopro che un sacco di gente, anche loro sono stressati. Che anche loro stanno male. Pieno. Inizio a pensare che sia una malattia professionale. Non parlo della docenza, che è effettivamente stressante, quanto essere qua, nel duemilaventiquattro, in questo sistema paranoico. Questo occidente paranoico, ricco e povero nello stesso tempo, che pensa alla realtà virtuale e guarda di quanti centesimi è aumentato l'olio d'oliva, che condivide le foto dell'ultimo portatile Apple e va dai genitori per chiedere i soldi per l'anticipo iva di fine anno. Che parla di comunicazione online e passa la sera a piangere e betsemmiare dopo l'ennesima litigata furiosa con la propria madre. Che come me spera di reggere fino alle vacanze di natale per avere finalmente un po' di tempo per stare male senza danneggiare la programmazione, la produzione.
Ho iniziato ad ascoltare un gruppo post-punk che si chiama Laguna Bollente, o qualcosa di simile. Hanno fatto due ep, li ho scoperti per caso su bandcamp. Probabilmente assomigliano a qualcuno di più importante che non conosco, ma l'ignoranza per una volta mi salva. Non posso postare i testi su Facebook perché ci sono diverse bestemmie e parole che hanno a che fare con umori corporali, e sono i momenti migliori btw. Un frammento che mi ha fatto decidere l'acquisto è un brano di quando parlano del fascismo nell'agire quotidiano, ed escono con un “'questo è mio' e ti rubo gli orociock”, che mi ha conquistato.
Un pensiero che ho è che in realtà non sto male per lo stress, ma per una malattia mortale che nessuno ha visto e che quando emergerà sarà troppo tardi. Ma è un pensiero che mi serve a poco. Diversamente dalle storielle che girano su Facebook dove ci sono grandi riscatti sociali e rivincite di chi era stato ingiustamente vessato, nel mondo reale difficilmente otterremo delle scuse da parte di chi ha sbagliato. Quando alla fine tirassero le fila delle grandi discussioni della rete, vaccinisti e antivaccinisti, pro nucleare e contro, pro motore elettrico e pro motore termico, pro immigrazione e controimmigrazione, se alla fine emergesse dagli oceani un grande delfino dorato, altezza almeno trenta chilometri, e dal suo ventre uscisse una voce che dice “ecco, adesso vi do i risultati” e poi snocciolasse chi aveva torto e chi aveva ragione, ecco, anche in un caso così plateale, chi aveva torto non chiederà mai scusa. Perché non ci sono delfini dorati e perché essere ingiusti e avere paura e ferire chi ti sta attorno è nella natura umana. Perché dovrebbero chiedere scusa, e di cosa.
Non c'è giustizia terrestre, se non in filamenti fragilissimi, figuriamoci quella immaginaria dell'ultramondo. L'ingiustizia è uno degli alimenti terrestri, che va masticato e addentato. E ingoiato. E rivomitato per terra e calpestato.