{trittico per berlusconi redivivo}

[I]

un tempo eri così grande silvio berlusconi cosa ti è successo dove è il gusto pieno

della vita ti ho visto sudare sotto la pelle ti ho visto circondato dalla morte e dai foto

grafi con un sorriso che non si chiudeva tutti mostravano gli impianti avvitati nella mandibola

un tempo sul tuo regno non calava mai il sole piatti dove c'eri tu non potevo resistere dovevo

masticare dove è finito tutto l'odio che michele serra che linus che zelig preparava per la tua

venuta dove sono le armate anticomuniste che dovevano abbeverare i loro cavalli nell'aranciata

amara san pellegrino dove è ora benny hill per ché non è qua a metterti una mano sul culo

ridendo a favore della telecamera? tutto, amore, passa tutto il tuo corpo è trapassato tutto è

infinito passivo come un san sebastiano resisti tieni il seme aspettando i consigli degli acquisti

[II]

nel mezzo del cammin del tracking che ti trakko ecco brodi la bestia sublime myazaikeska grossa il cinghiale che apre la testa dai denti t'azzanna e feca fecale il suo sterco animale pastoso il suo sborroso sugo pestoso la bestia fetosa che dentro tiene carne e peste – malattia e furore e la sua carne sopraffina si fa pesta suina e fa carcassa marcia fa odore di morte e crolla la suina zannosa e si sfalda la pelle a testoni si sfondano le coste e ne esce piena di liquami la testa crania di silvio berlusconi che manda un ringhio anche lui nervoso un sorriso suppuroso e secerne dai denti formaldeide e cloruro di sodio: son io – urla la bestia – lo re delle due italie delle tre sicilie degli sfinteri mortali – grida – sono io delle fiche lo dito altero che separa le acque saline per portar le genti oltre il mar rosso delle comuniste denti son io l'impresario col grasso degli insaccati fin dentro la fessa molla delle dipendenti son io il rosso sangue delle mestruazioni di milanello delle molle tette della maggiorata della forza italia necro tizzata – urla e intanto la carne del volto putrella tral cemento armato di faivlandia e si gonfia e sgonfia come una verga che dice e non dice e maledice il suino sfondato e esonda ancora da dietro i succhi interni del padreterno e crita il busto del milanese e morde la carne del maiale che lo compone e si strappa a brani i pezzi di photo shop che lo compone la pelle lobotomizzata s'insacca di grumi e ingoia la sperma lacrimale del suo stesso occhio e si commuove e sbocca via pezzi interni dei figli e delle figlie intere cosce pezzi di labbri rifatti interni scapezzoli strappi di capelli glandi scuri e tristi filetti interrotti bocche sagomate pezzi di mani di voci della carne della sua carne e di quella delle suine impazzite delle moglie e – sono il figlio dell'italia defiscalizzata – crita e dalla bocca – orrore – escono arti dell'italica stirpe – dei ganesh grani del rosario vibratori in madreperla felafel con la coca il cappello sfiatato di masaniello lingue di silvio stesso che si limonano da ere distanti – vedi la lingua del settantenne ke s'arrapa alla se stessa ventenne e saliva su saliva ascende e discende il cero disneyano e s'invulva nel foro della bocca del cinghiale che ormai rota li occhi al cielo da cui cade una broda nera una pioggite ambulacrale che tira via la pelle del maiale ne mostra la necrosi gengivale scava le ossa vuote tutto tira via sotto terra fino ai fori del corpo della forma finale della bestia il coro dolente del silvio presidente lo spazio per i consumatori che – mesti – aggiungono i loro resti a quelli dei gesti vuoti della merdevisione lo scrollo del grande scazzo a benedizione della landa italica che – vedi – soffre geme e preka sotto la crema salata della peste bubbonica ingoiata – generazione dopo generazione – la grande finzione dell'iperminzione che dall'alto – aprite le bocche – crolla come un basamento l'ennesima opera pubica martoriata – pelo su pelo – cinghiale su cinghiale – per fare un grande pennello ci voleva una falce e un martello ci voleva la faccia ci voleva un tema astrale ci voleva stare tutti assieme molto molto male – dice la bestia e poi pape satan et abraxas crita e con lo dito scrolla al dio il green pass

[III]

Io quando berlusconi muore prendo un secchio. Di metallo. Non gioisco non dico niente, prendo il secchio e esco di casa, vado fino a un giardino e riempio il secchio di terra. Poi, lentamente vado fino alla stazione e prendo il treno. Il secchio di metallo pieno di terra pesa, non ho fretta, vado piano. Avvicinandomi alla stazione, lo so, incontrerò altre persone con un secchio di metallo pieno di terra, tutti che vanno verso la stazione, alcuni in auto con più secchi. In stazione vado alla cassa e chiedo un biglietto del treno per Arcore. Se non c’è la stazione chiedo quale è il posto più vicino che posso raggiungere ad Arcore e poi pago il mio biglietto, lo timbro e aspetto il mio treno tenendo sulle ginocchia il mio secchio. Ogni tanto butterò uno sguardo agli altri seduti sulle panchine con il loro secchio, o a quelli in piedi che scambiano due parole tenendo ai loro piedi il secchio. Poi saliamo tutti sul treno per Arcore.

Quando arriviamo ad Arcore entro nella villa. Non sarà immediato, immagino un qualche tipo di resistenza, ma se lui è riuscito ad entrare in parlamento, noi riusciremo ad entrare ad Arcore, immagino. Entro ad Arcore e sarò molto urbano, chiederò dove è il bagno. Uno qualsiasi, immagino che ne avrà molti nella villa. Uno qualsiasi. Io entro nel bagno e rovescio il mio secchio di terra. Poi riprendo il secchio di metallo vuoto ed esco, passerò tra i cumuli che si staranno formando nei corridoi, per la scale, nei saloni della villa, saluterò con un cenno le centinaia di persone che svuotano il loro secchio di terra dentro le stanze, sopra ai mobili e si dirigono poi come me verso l’uscita. Poi esco dalla villa e faccio un po’ di strada e cerco un posto dove si possa vedere bene la villa, magari un posto un po’ rialzato, non so se ci sia. E resterò lì a guardare la gente che entra ininterrotta nella villa e svuota il suo secchio ed esce, fino a vedere tutti gli spazi, ogni minuscolo anfratto d’aria, riempito con la terra. La villa di Arcore che trabocca terra dalle finestre, dalle porte e gente che continua ad arrivare e allora inizia a coprire il tetto, le terrazze, accumula davanti alle uscite, le cancella con la terra.

Non dico che sarà veloce la cosa, magari una settimana, due, magari un mese. Un anno. Non importa. Mi porterò dei panini.

Alla fine di tutta la villa, di tutta l’elettronica che c’era dentro, l’elettricità, le visioni e l’odore resterà una collina di terra. Una piccola collina ad Arcore su cui ancora qualcuno arriverà in ritardo per lasciare il suo secchio di terra e altri – magari una coppietta – si sdraieranno su un plaid per abbracciarsi e guardare il cielo, pieno di nuvole orrende.