[Cronache dalla scuola]

ieri sera sto camminando per strada a Genova, non so se avete mai visto una via periferica di Genova la sera, è il tripudio della desolazione buia e grigia, e io cammino come in genere fanno i genovesi a Genova la sera nei quartieri periferici, assumendo la posa di ladri che stiano portando a casa il bottino, quando la persona che sta camminando dalla parte opposta mi vede, sterza, mi ferma.

“Oh prof, è lei?” mi chiede e – niente – è un mio ex studente, e nei minuti dopo mi dice che mi segue sempre su Instagram (❤) e io gli chiedo che sta facendo e lui mi racconta che sta facendo ingegneria biomedica, mi racconta dei gruppi di studio, delle difficoltà, dei suoi compagni, dei progetti per il futuro. E io ascolto tutto, mi immagino nei suoi panni, avere ancora tutto questo davanti così impalpabile, il gran casino della vita.

Stamattina cammino cercando di raggiungere il mio spacciatore di ramen locale per annegare nel dispiacere una lezione andata malissimo, un laboratorio che stavo facendo in cui mancavano pezzi, compiti non fatti, pressapochismo ed ero deluso non del fatto che il laboratorio fosse andato a ramengo, ma che io avessi cercato di raccogliere i cocci, di dirigere il lavoro anche se malfatto, quando invece – con il senno di poi – la cosa che avrei dovuto fare era fermare tutto e dire, ok, così non è lavorare. È andato tutto a bagno: perché? E invece ho sbagliato, ho cercato di tenere le cose assieme e ora cammino cercando di raggiungere lo spacciatore di ramen quando vedo che – piove sempre sul bagnato – è chiuso. C'è un biglietto con scritto solo “oggi chiuso”. Fine.

Comunque torno indietro e vado a mangiare in un posto di cui non dirò il nome, una cosa d'asporto, su cui dovrei fare un racconto a parte ma non voglio incasinarmi, sto cucinando, e incontro un altro ex studente. Della stessa classe. Mi saluta, mi racconta di lui, ora si è preso un anno in cui lavora come educatore con ragazzi difficili e dall'anno prossimo inizierà una scuola come formatore e educatore e io dico forte e gli chiedo un po' di cose, insomma, anche qua vedo i suoi occhi che cercano di vedere il futuro, li ammiro e ci lasciamo.

E io penso, ecco, questi erano tutti e due in informatica. Hanno fatto cinque anni di informatica e ora uno fa biomedicina e l'altro educatore e mi vengono in mente i rapporti eduscopio che mi ero studiato l'altro giorno dove si vede che il grosso degli studenti che noi formiamo e bolliamo con il nostro bel diploma, poi quel diploma non lo usano né per lavorare né per proseguire gli studi.

Mi ero fatto un conto spannometico che una classe ipotetica di venti studenti del tecnico, quelli che poi trovano un lavoro coerente con il titolo di studio sono tre. Quello che poi studiano qualcosa in linea con il titolo di studio, due. Cinque in tutto, su venti. Gli altri quindici prendono altre strade. Che – intendiamoci – è bellissimo, e meno male.

Ma il dubbio che questo sistema formale in cui li ingabbiamo per cinque anni a studiare qualcosa che il settantacinque per cento di loro non utilizzerà mai nella vita reale e che alcuni di loro portano stancamente fino in fondo solo per “non sprecare gli anni già passati” e “portare a casa un diploma che comunque serve”, ecco, il dubbio che questo sistema sprechi un sacco di risorse per automantenere il suo funzionamento, ecco il dubbio – dicevo – viene.