cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

In pratica – a sorpresa – somministro agli studenti di una quarta questo gioco logico, un meta-questionario molto complesso a risposta multipla le cui risposte sono all'interno del questionario stesso. In inglese. In realtà sono entrato in classe e ho detto, volete fare una lezione tradizionale o un test logico, e loro dopo averne un po' dibattuto, dopo essersi assicurati che non c'era valutazione negativa, hanno scelto di fare il test.

Il test è fondamentalmente di logica, ma ci sono anche competenza di inglese e di comprensione del testo, quindi mi è sembrato un buon modo per fare due ore di didattica orientativa. Ma – ho scoperto poi – si è rivelato estremamente interessante per indagare le dinamiche di gruppo.

Ho ritirato i cellulari, isolati i banchi, come se fosse un compito in classe tradizionalissimo, dicendo loro che la prima ora avrebbero dovuto lavorare da soli, dalla seconda in poi si sarebbero potuti scegliere un partner e continuare in coppia.

Consegnati i fogli ho cominciato ad osservarli.

Inizialmente hanno lavorato singolarmente, ma quasi subito, di fronte alla straordinarietà del compito hanno naturalmente cercato di parlare con i compagni per confrontarsi e cercare conforto. E qui c'è stata una prima divisione tra almeno tre tipologie di lavoro scelto:

  • alcuni lavoravano da soli, senza nessuna interazione esterna, nemmeno con me;
  • altri cercavano continue strategie per risolverlo, cercando il mio aiuto o quello dei compagni;
  • altri, di fronte alla complessità della prova, dopo un certo periodo di tempo si arrendevano aspettando eventualmente aiuto nel partner della seconda ora.

Allo scoccare della seconda ora i ragazzi che erano nella prima tipologia di gruppo continuavano sostanzialmente a lavorare da soli, quelli della seconda tipologia di gruppo si mettevano subito assieme con altri al loro stesso livello per confrontare i risultati e arrivare alla fine, il terzo gruppo sceglieva un partner, ma con un atteggiamento molto dimesso.

Più o meno poco dopo la prima ora uno studente che aveva lavorato singolarmente viene da me dicendo di aver finito. Guardo il foglio e il compito è perfetto. Perfetto. Gli stringo la mano, gli faccio i miei complimenti e gli dico di uscire dalla classe e di andarsi a prendere un caffè.

A questo punto un'altra persona che aveva lavorato singolarmente dice che basta, rinuncia. Probabilmente, per lui, il fatto che il compito fosse già stato risolto ha fatto perdere del tutto l'interesse di quella che era stata vissuta come una sfida competitiva. Chi aveva usato la seconda e terza tipologia di lavoro invece non viene toccato dal fatto che qualcuno ce l'abbia già fatta.

Senza che io lo avessi detto i gruppi diventano più informali, specie di quelli della seconda tipologia di lavoro: le coppie diventano gruppi da quattro e i ragazzi naturalmente girano per trovare indizi e di tanto in tanto vengono da me per sottopormi la loro risposta. Quelli che facevano parte della terza tipologia di lavoro, una minoranza, cedono, perdono interesse nel compito che ritengono al di sopra delle proprie capacità. Quelli della prima tipologia, a questo punto molto pochi, continuano, testardamente da soli.

Ad un certo punto uno studente della prima tipologia, che aveva lavorato per un'ora e un quarto da solo con aria svogliata e distratta ed ero convinto fosse completamente fuori strada, viene da me mi dà il compito: c'è solo un errore. Il secondo miglior risultato. Gli faccio i miei complimenti.

Alla fine del periodo di tempo che avevo stabilito con loro (un'ora e mezza) do la soluzione. Tutti sono abbastanza soddisfatti. Spiego brevemente che è un test interessante per capire come hanno lavorato, ma anche per loro per rendersi conto di cose che “naturalmente” sanno fare meglio di altre. C'è chi di fronte all'inglese prova confusione, chi ha difficoltà ad astrarre e chi invece si trova a suo agio. Sono caratteristiche che ognuno di noi ha e potrebbero essere utile per capire come muoversi anche dopo la scuola.

Primo finale Tirando le fila:

  • gli unici due risultati positivi sono venuti da chi ha lavorato da solo;
  • ...ma il loro lavoro non ha aiutato il resto della classe;
  • i gruppi che si erano creati autonomamente sarebbero andati avanti per ore arrivando (forse) alla soluzione;
  • ...ma il lavoro di problem solving e la discussione che facevano fra di loro era didatticamente e formativamente più utile che il risultato effettivo del compito stesso;
  • chi aveva vissuto il compito in maniera competitiva aveva perso interesse nel compito appena si era reso conto di non poter vincere.

Secondo finale Alla fine, durante l'intervallo, riprendo tutti i fogli, mi cade l'occhio su quello dell'unico studente che aveva dato la risposta giusta. Lo guardo meglio. È perfetto. Letteralmente perfetto. Guardo quelli degli altri compiti, sono pieni di segni, ipotesi, cancellazioni. Il suo no, solo le risposte giuste. Dico cazzo, no: ha copiato. Mi cade il cielo addosso. Ha chiaramente copiato da qualche parte in rete, non ci sono tutti i naturali appunti a mano che una persona farebbe nel fare quel compito. Che deficiente che sono stato.

Poi, l'agnizione. Vado al suo banco, guardo i fogli che ci sono sopra: c'è la brutta, piena dei segni e delle ipotesi. L'aveva poi ricopiata in bella.

“Grazie grazie grazie” sospiro in una specie di rantolo e di preghiera assieme. Anche questa è fatta.

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Quando è metà mattinata arrivano tre miei ex studenti del tecnico informatico, mi sorridono, mi avevano avvertito via Instagram che sarebbero passati.

Ci salutiamo, gli stringo la mano, sono gli stessi che avevo portato a teatro di sera, fuori dal mio orario di lavoro, alcuni per la prima volta, gli stessi a cui avevo letto Strindberg e fatto vedere – analizzandolo scena per scena – Othello di Orson Welles in classe.

Scendiamo al bar e mi raccontano di quello che fanno, la scuola di recitazione e doppiaggio, del loro canale Tiktok dove doppiano pezzi, i sogni, i casini, le gratificazioni e le difficoltà, i lavori con cui guadagnano e quelli con cui pensano prima o poi di farlo, chi sul palco chi dietro un microfono.

E io li ascolto e sono contento per loro e anche un po' fiero che alcune cose che ho fatto in classe li stiano accompagnando. Ma so anche che quel sogno è nato prima di me e finirà dopo di me. Che io non c'entro niente. Lo avrebbero seguito anche senza di me.

Però mi sono trovato in mezzo e ho partecipato a un pezzo del loro percorso e ora a sentire che recitano Strindberg e che al loro docente di teatro che gli chiedeva se conoscevano la storia di Otello hanno risposto che – certo – avevano anche visto tutto il film di Welles; e anche quando mi chiedono che ne penso dei loro doppiaggi, ecco

sospiro un po'.

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Entro in quinta, dove devo fare Pirandello, guardo fuori dalla finestra il sole che illumina la periferia urbana attorno alla mia scuola e dico, ragazzi, che ne dite se andiamo a fare lezione nel parco giochi che c'è vicino alla biblioteca? Con questo bel sole...

La votazione è netta, si esce. Un quarto d'ora dopo siamo seduti al sole sulle panchine vicino al parco giochi e tutti abbiamo in mano quattro pagine dai Sei personaggi in cerca d'autore. Uno studente inizia a leggere e mi guarda. “Ahia – dice – questa mi sa che dobbiamo recitarla noi”. Rido.

Un quarto d'ora dopo sono seduto per terra che li guardo leggere e recitare Pirandello nel mezzo della strada, ogni tanto un genitore con un bambino passa tra di noi per andare al parco giochi. Ci guardano strano. Loro continuano a leggere, qualcuno prova a recitare qualche battuta mettendoci del suo.

Io ogni tanto li fermo, faccio qualche annotazione. Gli spiego cosa è un copione, la questione del tradimento del testo. Racconto un aneddoto che mi aveva raccontato Buonaccorsi ai tempi dell'università. Loro ascoltano, riprendono, leggono e recitano, ogni tanto scherzano, ma portano il testo fino alla fine.

“Allora, pubblico, – chiedo a chi non ha recitato – che ne pensate?”. Anche loro commentano, danno qualche suggerimento, sfottono.

“Adesso – dico – la rifacciamo. Ma prima prendete le parti che vi hanno creato difficoltà perché erano scritte difficile, con un italiano poco comprensibile, e le attualizzate. A penna riscrivete Pirandello in modo che sia più funzionale alla scena”. E loro lo fanno, si mettono lì e rendono più efficace Pirandello.

La seconda messinscena viene molto meglio della prima. Chiedo di nuovo al pubblico cosa ne pensi e nascono ancora suggerimenti e critiche.

Alla fine, prima di tornare, dico agli attori che sono stati bravi e che per la volta dopo, come compito, dovranno rendere il copione ancora più efficace, eliminando termini desueti, in modo da recitarlo ancora in maniera sempre più sciolta. “E poi – dico alla studentessa che recita la figliastra – qua il padre fa una battuta che oggi potrebbe sembrare sessista”. Gliela indico e lei è d'accordo. “Ecco – le spiego – tu per la prossima volta, aggiungi una contro-battuta al testo. Quando tuo padre dice quella cosa, allora tu lo blocchi e gli dici qualcosa. Fai però sapere al tuo compagno cosa, perché anche lui dovrà aggiustare la battuta successiva per riagganciarsi all'originale”. Lei è d'accordo, inizia a parlare con l'altro studente che fa il padre.

Intanto si avvicina a me uno del pubblico che durante lo spettacolo era sempre stato zitto senza partecipare. “Scusi professore, ma io non sono d'accordo” mi dice a voce bassa. “Uh, su cosa?” chiedo. “La figliastra in quel momento non si metterebbe a litigare con il padre. Non è il momento giusto. Devono convincere il direttore a fare lo spettacolo, non si preoccuperebbe di una battuta sessista del padre”. Non me lo aspettavo.

“Ha senso” gli dico. Lo guardo. Richiamo la studentessa che faceva la figliastra e anche lo studente che faceva l'attrice giovane. “Guardate – dico – in effetti il vostro compagno dice che quella battuta in bocca alla figliastra qua ci starebbe male. Ripensandoci avrebbe più senso se la facesse l'attrice giovane”. I due studenti ne discutono un attimo e poi sono d'accordo con la critica. Sarà lo studente che fa l'attrice giovane a dover scrivere la battuta in più.

Torniamo indietro, è passata ormai un'ora e mezzo e abbiamo letto, per due volte, Pirandello commentandolo, al sole, in un parco giochi. Mentre camminiamo si avvicina la studentessa che fa la figliastra e mi guarda e mi dice: “mi è piaciuto” e poi mi fa un sorriso un po' beffardo un po' no.

Intanto una voce da dietro mi chiede quale è il mio robot giapponese preferito.

[cronache dalla scuola]

Sono lì in terza che sentiamo un webinar su come sia cambiato il ruolo della donna nel corso del novecento, con infinita lentezza, e durante il webinar una storica del'archivio Ansaldo ricorda di come le donne nella prima guerra mondiale fossero entrate per la prima volta in fabbrica

e mentre parla io mi metto lì e con il portatile mi vado a cercare la sbobinatura dell'intervista che avevo fatto a mia nonna quando andavo all'università e al volo copincollo tre parti in cui mia nonna racconta della sua vita in fabbrica negli anni trenta e alla fine del webinar dico ok ragazzi vi leggo una cosa e mi collego a quello che aveva detto la storica e – in pratica – leggo mia nonna in classe

e i ragazzi ascoltano, un po' come al solito fanno un po' di casino, sono gli ultimi minuti dell'ultima ora del venerdì, e io leggo questa parte in cui mia nonna descrive le operaie della fabbrica di sigarette, tutte nella parte alta della stanza, con la testa che tocca il soffitto, i piedi sui travi, uno a destra uno a sinistra, e in mezzo tirano su il tabacco con una corda e – dice mia nonna – lei e le operaie sono tutte nude

hanno solo le mutande, a gambe larghe sui travi, ma per il resto sono nude perché c'è un caldo infernale, il tabacco viene scaldato, essicato, e subito deve essere messo dentro, ancora caldo e mia nonna parla di questa cosa, dice con orgoglio che lei aveva un bel seno e allora da sotto, dalle finestre, sbucano i maschi, a spiare le operaie nude che iniziano a gridare “Va’ via di li’ disgraziet!!” e continuano a lavorare scacciando i maschi che dai vetri arrivano attirati come mosche

e in quel momento, mentre leggo le mie parole di mia nonna che racconta questa cosa, in terza non vola una mosca, un silenzio che penso non si ripeterà mai più nel corso del triennio e questa cosa di prendere materiali da tutto quello che ho fatto nella mia vita e poi andare ancora indietro e far sentire in aula – leggendola – la voce di mia nonna che urla in marchigiano – e far sentire tutto questo come storia, ecco, me lo segno tra le brevissime cose illuminanti, per me, di quello che faccio

[cronache dalla scuola]

[1] Quando un tuo studente in un compito di scrittura creativa mette dentro l'espressione “sb0rr4 di toro” e tu ne approfitti per mostrarlo in classe e fare una lezione magistrale sulla comunicazione di Jakobson e sul concetto di contesto.

[2] Quando fai in quinta una lezione sugli intonarumori di Russolo e gli mostri come siano visti da alcuni come archetipi della musica elettronica e fai sentire/vedere Pendulum Music di Steve Reich e gli fai anche vedere Clapping Music indicando come la musica a pattern di Reich potrebbe essere un collegamento possibile in sede di orale di maturità con informatica per ciò che riguarda i cicli

e poi gli fai vedere l'inizio del Quartetto per archi ed elicotteri di Stockhausen e quello di Construction Sounds di Schneider TM, mostrando come sia simile per certi aspetti al Risveglio della città di Russolo e tu – cioè io – so dentro di me che quello che gli sto mostrando e dicendo finirà nel 99% nell'autodistruzione e che sto lavorando per quel piccolo 1%

e poi citi a braccio Berio che – alla domanda su cosa sia la musica – aveva risposto “tutto quello che una persona percepisce come musica” e che la musica è sempre politica e che oggi noi ascoltiamo una musica pop che è costruita su un calco anglossassone/statunitense, dici, e racconti di quella volta

che lavoravi su DPT anche otto ore al giorno e ti mettevi le cuffie per lavorare meglio e ti sei reso conto che stavi tutto il giorno a sentire musica con ritmi nati per ballare che ti dicevano che dovevi divertirti e dovevi ballare e questa musica pop che diceva che dovevi ballare e divertirti la sentivi per ore mentre eri immobile davanti a un terminale a fare esattamente la cosa opposta, eri/ero immobile a lavorare

perché – dici – la mia e la loro generazione hanno questo in comune, un carico di responsabilità e pressione enorme, infinitamente maggiore di quello di un tempo, una pressione sociale, economica, culturale, lavorativa che ci richiede la società e il mercato che – per farcela sopportare – ci dà anche la valvola di sfogo, il pop, la cultura commerciale

e Stockhausen non è rilassante, non lo senti sotto la doccia, cioè io sì, ma voi no, dici, e anche in questo la musica è politica e io mi rendo conto – dico – che questo che vi sto facendo sentire vi sembra senza senso e assurdo, ma se non ve lo faccio sentire io qua è facile che poi non lo sentite più dici e ridacchi

e poi uno studente viene al computer e ti fa vedere un meme di uno che fa musica con la tromba mentre il figlio usa lo sportello del forno per fare la batteria e ti dice “scusi eh, ma perché questa allora non sarebbe musica concreta?” e ti guarda come se fossi un fesso e tu gli dici la tua e lui la sua

e poi un altro studente che era al cellulare, uno che per compito sta scrivendo un saggio breve di quarantamila battute sui Beatles di cui è appassionato, lui, alza gli occhi e dice, ecco stavo cercando e qua c'è scritto che i Beatles hanno scritto Revolution 9 ispirandosi a Stockhausen ed è un po' fiero e un po' stupito della cosa

e allora mettete Revolution 9 e ne ascoltate un pezzo e tu dici bella, mi fa venire in mente un pezzo di Battiato, Goûtez et comparez, e lo metti e ne sentite un pezzo anche di quello e tu metti la parte in cui Battiato ha campionato la voce di Marinetti e il cerchio si chiude

e tutto questo vabbé lo fai davanti agli studenti ma anche alla docente di inglese che – brillando – si è fermata quasi due ore in più fuori orario per sentire la tua lezione – niente – dà l'idea che la scuola potrebbe essere un gran casino di cose

[cronache dalla scuola]

Entro in terza informatica, ecco prof. mi dicono, oggi tocca a noi, mi dicono e io annuisco, non dico niente, vado in fondo alla classe e mi siedo tra i banchi degli studenti. In pratica qualche settimana fa un gruppo di studenti mi aveva chiesto se poteva preparare lui una lezione sui vizi dell'uomo. Lezione autogestita. E io gli avevo detto, beh, certo.

E quindi oggi sono qua, collegano le slide al monitor touch che abbiamo in classe e tengono la loro lezione. Ludopatia, fumo, alcol, cibo e poi collegamento con italiano con il Secretum del Petrarca.

Ogni argomento ha delle slide fatte da loro con dati piuttosto precisi sulla ludopatia, sui diversi tipi di fumo, dalle sigarette alle canne passando per la svapo, ai cibi spazzatura, ai danni causati dal bere. Nelle slide, di tanto in tanto, ci sono i volti dei loro compagni, piccole scenette, gag, meme.

Alla fine di ogni presentazione parte un video preso da internet, collegato all'argomento: uno delle Iene e tre di Cartoni Morti. Tutti sul pezzo. Alla fine del video parte un mini-Kahoot con tre/quattro domande sugli argomenti appena visti.

Un'ora e mezza di lezione autogestita, io prendo un po' di appunti, mi segno i punti di forza e quelli di criticità. La classe partecipa, segue, prende in giro gli errori, gioca ai cinque Kahoot. È rispettosa del lavoro fatto dagli altri.

Alla fine tornano a posto, gli faccio i miei complimenti, dico due o tre cose minori. Un bel lavoro. Ecco prima o poi – penso – dovrei prendere il coraggio a due mani e rivoltare tutto quello che faccio in questo modo. Fare meno cose ma più collettive, mettere al centro loro e trasformare tutto in un laboratorio continuo.

[cronache dalla scuola]

Faccio di pomeriggio studio assistito e seguo questa ragazza di prima, di origine rumena, che scrive con grande difficoltà, fa un sacco di errori e ogni tanto si blocca, si imbambola per qualche minuto e poi riparte a scrivere e sta scrivendo un compito che le ha dato la professoressa di italiano, se potessi usare una macchina del tempo e andare nel passato, cosa cambieresti?

E lei scrive lì, parola per parola, vedo già degli errori che poi dovrò segnalarle e quando ha finito le chiedo, “posso leggere?” e lei mi fa uno di quei suoi stranissimi e spiazzanti sorrisi e mi dice “certo professore”, con un accento strano e io prendo il foglio e leggo.

E c'è scritto che se lei potesse andare indietro nel tempo e cambiare qualcosa lei non cambierebbe niente, ma spierebbe solo quello ha fatto nel passato, e non cambierebbe niente perché le cose brutte che le sono successe hanno fatto sì che lei sia quello che è, tanto quelle belle.

Lei è fatta di tutti i suoi sbagli e tutti i suoi pregi, in ugual misura. E non ne cancellerebbe nessuno.

“Cazzo” penso mentre leggo e la guardo e lei mi guarda con fare interrogativo. “Gran bel pensiero” dico. “Dove lo ha letto?” e lei si riprende il foglio e mi dice che l'ha pensato lei. “Se io tornassi indietro e correggessi tutti gli errori e gli sbagli, ora penserei che il mondo funziona sempre bene e sia tutto bello. Sarebbe un problema, non trova?” e di nuovo uno di quei sorrisi che guardano oltre me, oltre il muro della scuola, l'esterno dell'aria, non so dove ci sia poi la consistenza del pensiero umano.

[cronache dalla scuola]

Oggi sono andato a scuola un'ora prima e mi sono infilato nella mia quinta nell'ora di inglese perché ci eravamo messi d'accordo di fare lezione insieme. Così, anarchicamente.

Abbiamo aperto un articolo del New York Times che avevamo scelto dove si commentava il rapporto tra generation-z americana e la politica di Biden in medio oriente e abbiamo fatto due ore di lezione interamente in inglese.

Abbiamo fatto leggere i ragazzi, chiedere di riassumere quello che avevano letto, ascoltato le loro domande, fatto domande sulla percezione della guerra arabo israeliana che la loro generazione ha oggi in Italia.

Nonostante il mio inglese sia al limite del perseguibile legalmente, la cosa ha funzionato, la docente di inglese bontà sua inespressiva mentre parlavo. Alla fine ne è uscita una delle lezioni più efficaci degli ultimi mesi.

Poi, dopo, fuori ci siamo detti come sarebbe bello se fosse sempre così, lavorare assieme ai colleghi in classe invece di fare la turnazione entro io esci tu. Tipo gabinetto pubblico.

[Cronache dalla scuola]

ieri sera sto camminando per strada a Genova, non so se avete mai visto una via periferica di Genova la sera, è il tripudio della desolazione buia e grigia, e io cammino come in genere fanno i genovesi a Genova la sera nei quartieri periferici, assumendo la posa di ladri che stiano portando a casa il bottino, quando la persona che sta camminando dalla parte opposta mi vede, sterza, mi ferma.

“Oh prof, è lei?” mi chiede e – niente – è un mio ex studente, e nei minuti dopo mi dice che mi segue sempre su Instagram (❤) e io gli chiedo che sta facendo e lui mi racconta che sta facendo ingegneria biomedica, mi racconta dei gruppi di studio, delle difficoltà, dei suoi compagni, dei progetti per il futuro. E io ascolto tutto, mi immagino nei suoi panni, avere ancora tutto questo davanti così impalpabile, il gran casino della vita.

Stamattina cammino cercando di raggiungere il mio spacciatore di ramen locale per annegare nel dispiacere una lezione andata malissimo, un laboratorio che stavo facendo in cui mancavano pezzi, compiti non fatti, pressapochismo ed ero deluso non del fatto che il laboratorio fosse andato a ramengo, ma che io avessi cercato di raccogliere i cocci, di dirigere il lavoro anche se malfatto, quando invece – con il senno di poi – la cosa che avrei dovuto fare era fermare tutto e dire, ok, così non è lavorare. È andato tutto a bagno: perché? E invece ho sbagliato, ho cercato di tenere le cose assieme e ora cammino cercando di raggiungere lo spacciatore di ramen quando vedo che – piove sempre sul bagnato – è chiuso. C'è un biglietto con scritto solo “oggi chiuso”. Fine.

Comunque torno indietro e vado a mangiare in un posto di cui non dirò il nome, una cosa d'asporto, su cui dovrei fare un racconto a parte ma non voglio incasinarmi, sto cucinando, e incontro un altro ex studente. Della stessa classe. Mi saluta, mi racconta di lui, ora si è preso un anno in cui lavora come educatore con ragazzi difficili e dall'anno prossimo inizierà una scuola come formatore e educatore e io dico forte e gli chiedo un po' di cose, insomma, anche qua vedo i suoi occhi che cercano di vedere il futuro, li ammiro e ci lasciamo.

E io penso, ecco, questi erano tutti e due in informatica. Hanno fatto cinque anni di informatica e ora uno fa biomedicina e l'altro educatore e mi vengono in mente i rapporti eduscopio che mi ero studiato l'altro giorno dove si vede che il grosso degli studenti che noi formiamo e bolliamo con il nostro bel diploma, poi quel diploma non lo usano né per lavorare né per proseguire gli studi.

Mi ero fatto un conto spannometico che una classe ipotetica di venti studenti del tecnico, quelli che poi trovano un lavoro coerente con il titolo di studio sono tre. Quello che poi studiano qualcosa in linea con il titolo di studio, due. Cinque in tutto, su venti. Gli altri quindici prendono altre strade. Che – intendiamoci – è bellissimo, e meno male.

Ma il dubbio che questo sistema formale in cui li ingabbiamo per cinque anni a studiare qualcosa che il settantacinque per cento di loro non utilizzerà mai nella vita reale e che alcuni di loro portano stancamente fino in fondo solo per “non sprecare gli anni già passati” e “portare a casa un diploma che comunque serve”, ecco, il dubbio che questo sistema sprechi un sacco di risorse per automantenere il suo funzionamento, ecco il dubbio – dicevo – viene.

[cronache dalla scuola]

In quarta oggi proviamo a fare questo gioco di comitato che ho organizzato, rifacciamo dal vivo la prima giornata degli Stati Generali, Francia del millesettecento. È una attività che ho già fatto in passato con alterne fortune e la provo in una classe dove – in genere – è difficile trovare entusiasmo.

Sono stati divisi in gruppi, tre o quattro nel clero, tre o quattro nella nobiltà, il resto nel terzo stato, eccetto Luigi XVI e due funzionari che devono gestire la riunione degli stati generali, fare entrare nella sala del re i tre ordini, dare la parola per gli interventi eccetera.

La sala del re è la classe del cooperative learning.

Ogni studente la settimana scorsa si è preparato una scheda personaggio con un minimo background su chi dovrà interpretare e ogni ordine ha inviato via mail almeno una lettera per il cahiers de doléances che Luigi XVI ha letto a casa.

Io non faccio niente, assisto con la docente di sostegno. I funzionari allestiscono la sala, mettono i biglietti per indicare dove si siederà il clero, quelli per dove si siederanno i nobili e quelli per il terzo stato. La sedia comoda diventa il trono del re e piano piano fanno entrare tutti.

Luigi XVI fa un discorso, risponde alle lettere del cahiers de doléances e invita i tre ordini, separatamente a trovare una soluzione alla bancarotta dello stato francese, a presentarla di fronte agli altri e davanti al re. Ogni proposta si metterà ai voti e quella che otterrà più voti vincerà.

I tre gruppi discutono per venti minuti e alla fine il clero propone una sua soluzione, la nobiltà propone una sua soluzione e il terzo stato dice che si rifiuta di partecipare ai lavori finché non si voterà per testa invece che per ordine.

A quel punto il re ordina al terzo stato di andarsene, il terzo stato si rifiuta, minaccia il re. Luigi XVI allora delegittima gli Stati Generali e se ne va in un altra classe con il clero e la nobiltà: ma una parte della nobiltà e del clero decide di non seguire il re e di restare con il terzo stato che annuncia la nascita dell'assemblea costituente.

Ecco, per me vedere succedere queste cose, il terzo stato attorno a un tavolo discutere animatamente delle percentuali di rappresentanza di nobili e clero in un nascituro parlamento popolare, gli studenti che in genere stanno nella loro calma piatta animarsi per un dibattito irreale sulla nascita di una nuova costituzione francese, è stato qualcosa.

Qualcosa di fragile, ma illuminante.

Alla fine torna il re e – per farla breve – la rivoluzione viene sventata grazie ad un passaggio provvidenziale ad una monarchia costituzionale. Grosso applauso spontaneo al termine dell'attività e modulo google per autovalutazione.

Esco e vado in terza dove abbiamo iniziato ieri un laboratorio di scrittura creativa. Un racconto che – come Chichibio e la gru di Boccaccio – deve avere un elemento ironico, comico o inaspettato a fare da spannung.

Li porto tutti in aula informatica e iniziano a copiare sul computer quello che avevano scritto il giorno prima per poi continuarlo e ogni tanto uno mi chiama dicendo che loro hanno finito. Io mi avvicino, leggo.

“Era una mattina di giugno quando Marco mi chiama e mi dice di andare da lui”. Il racconto continua, estremamente stringato, elementi narrativi essenziali e un po' confusi.

Io leggo tutto e dico bravi. C'è una base per lavorare. Adesso trasformiamolo in racconto. Con il dito indico la parola “Marco”. Chi è questo Marco? Che voce ha al telefono quando ti chiama. Come si veste. Che rapporti ha con te. Prendete questo nome anonimo e trasformatelo in un personaggio.

Loro ascoltano tutto e poi si mettono lì e iniziano a editare, a cambiare quello che avevano scritto. Piano piano stanno scrivendo qualcosa che cambia.

Alla fine, gli faccio salvare tutto, condividere con il mio account, continueremo la settimana prossima. Torniamo in classe, ci sediamo, tutti prendono il libro di Paolo Nori, Bassotuba non c'è e nella mezz'ora successiva io declamo Nori, chiedo ogni tanto perché secondo loro Nori ha fatto questa scelta invece di quell'altra, insomma, si fanno le due. Escono.

Poi mi fermo con i colleghi, restiamo a discutere più di un'ora dei problemi dei ragazzi, di scelte didattiche, di cosa potrebbe o non potrebbe fare la scuola.

Quando esco, alle tre, pranzo saltato, penso che oggi non sono avanzato di una riga nella programmazione di inizio anno, ma sento come queste quattro ore siano di quelle che lasciano un piccolo, piccolo segno in una piccola piccola parte dei ragazzi che oggi erano in classe.

E che il mio lavoro è fatto di piccoli piccoli segni che spesso sembrano proprio invisibili.